Myanmar, le minoranze etniche insieme alla piazza di Yangon

Myanmar, le minoranze etniche insieme alla piazza di Yangon

Anche lontano dalla capitale, le minoranze si stanno unendo alle manifestazioni contro il golpe con le loro bandiere, i loro slogan, la varietà di idiomi e costumi. Shan, Karen, Kachin, Kayah, Wa hanno rispedito al mittente l’improbabile «offensiva del sorriso» del generale Min Aung Hlain scegliendo di stare dalla parte di Aung San Suu Kyi

 

Mentre procede il duro braccio di ferro tra la giunta militare che ha preso il potere con un colpo di stato il 1° febbraio e la popolazione che nonostante le minacce, il coprifuoco notturno e la legge marziale sta dimostrando di non volere lasciare il Myanmar nelle mani dei generali, ogni mediazione e ogni accordo sembra impossibile.

Difficile per la giunta guidata dal generale Min Aung Hlain trovare interlocutori validi dopo aver messo agli arresti domiciliari o in carcere la Premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi, massimo esponente della Lega nazionale per la democrazia che ha gestito il Paese dopo la rinuncia dei militari alla dittatura dieci anni fa, e con lei il presidente Win Myint, decine di parlamentari e leader politici, oltre che centinaia di manifestanti. Minacce, richieste di dialogo e l’opera di convinzione che la legge marziale imposta per dodici mesi servirà a guidare il Paese verso “libere elezioni” dopo che è stato praticamente annullato il risultato di quelle dell’8 novembre 2020, sono cadute nel vuoto, come pure il tentativo di coinvolgere le varie fedi in un progetto di unità nazionale attorno alla giunta. Nessun risultato pratico ha avuto, com’era prevedibile, l’ “offensiva del sorriso” nei confronti delle varie componenti etniche (135 quelle riconosciute) che costituiscono il 35 per cento della popolazione complessiva di 55 milioni.

Quasi ovunque e ancor di più nei vari Stati a base etnica, le minoranze si sono unite alle manifestazioni con le loro bandiere, i loro slogan, la varietà di idiomi e costumi. Anche nella capitale commerciale e principale città del Paese, Yangon, un tempo considerata come distante dalle necessità delle minoranze ma oggi centrale nell’identità democratica perché caposaldo della Lega e città natale e di residenza di Aung San Suu Kyi.

La realtà etnica è una di quelle che nelle giornate frenetiche e difficili che hanno seguito il golpe sono state in qualche modo ignorate dai mass media internazionali, se non per qualche nota di colore. Invece, nelle regioni che sono la loro patria e che si sono opposte per mezzo secolo alla dittatura che avrebbe voluto togliere loro identità, terre e risorse per beneficiare anzitutto i vasti interessi economici delle forze armate a volti condivisi con realtà straniere, la partecipazione è stata insieme preoccupata e ampia.

In passato Shan, Karen, Kachin, Kayah, Wa e altri gruppi etnici sono stati oggetto di azioni militari brutali e che hanno cercato di spezzare la loro aspirazione a una maggiore autonomia e a una concreta partecipazione da pari grado nella vita del Paese e nelle prospettive di sviluppo. Pagando, anche se non sempre vi hanno preso parte direttamente, i tentativi dei birmani di scrollarsi di dosso il potere dei militari, come nel 1988 e nel 2007.

Concreto quindi il rischio che una stretta repressiva e soprattutto una repressione armata delle proteste in corso possa portare una nuova ondata di devastazione e violenze nelle aree tribali, insieme a un esodo delle loro popolazioni oltre confine. Aggiungendosi così in Thailandia a tre milioni di migranti da tempo impossibilitati a un rientro in patria e unendosi in Bangladesh a quasi un milione di profughi di etnia Rohingya espulsi da successive ondate persecutorie (ultima a più ampia quella dell’estate-autunno 2017).

Una situazione che porterebbe a un’ulteriore pressione della comunità internazionale che pressoché unanimemente ha condannato il golpe, ha prospettato sanzioni seguendo l’esempio statunitense e potrebbe seguire l’esempio della Nuova Zelanda che ha sospeso i rapporti diplomatici con il Myanmar.