Perché il Vaticano tace su Cina e Hong Kong?

Perché il Vaticano tace su Cina e Hong Kong?

Padre Gianni Criveller, missionario del Pime e sinologo, commenta le risposte del segretario vaticano per i rapporti con gli Stati mons. Paul Gallagher a una domanda posta in un’intervista dalla rivista America: “L’enciclica Fratelli tutti ha parlato del significato dei movimenti popolari per una conversione politica. Credo che a Hong Kong li abbiamo visti in azione, ma Roma tace e continua a non designare un vescovo per i cattolici di Hong Kong”

 

Il 23 marzo Gerard O’Connell, corrispondente da Roma della rivista America, ha intervistato l’arcivescovo Paul R. Gallagher, segretario vaticano per i rapporti con gli Stati su Cina e Hong Kong.

O’Connell ha posto una domanda buona e finora inedita: “Papa Francesco si è espresso contro l’oppressione in Myanmar. Perché tace su Cina e Hong Kong? ” Mi congratulo per il fatto che autorevoli esponenti della Santa Sede siano disposti a parlare di questo grave problema. È pure molto importante per la Chiesa e il popolo del Myanmar che papa Francesco abbia chiesto la pace e pregato per quella nazione martire. In questo articolo mi permetto di eccepire rispetto ad alcune risposte di Gallagher a O’Connell.

Osservare, come fa l’arcivescovo, che ci sono violazioni dei diritti umani ovunque nel mondo è un argomento infelice per giustificare il silenzio sulla Cina e su Hong Kong. E poi, c’è una logica nel lodevole sostegno del Vaticano al dramma dei rohingya in Myanmar da una parte, e dell’assordante silenzio sulla tragedia degli uiguri in Cina? E similmente sul Tibet, la Mongolia interna o sulle crescenti restrizioni alla libertà religiosa? Mi sembra un caso in cui si è forti con i deboli e deboli con i forti. L’accordo Vaticano-Cina del 2018 vale davvero tutto questo silenzio, anche se l’accordo ha portato a risultati tanto modesti?

Per quanto riguarda Hong Kong, il segretario Gallagher suggerisce che il Vaticano abbia difficoltà di intervenire per la divisione all’interno della comunità cattolica. Tuttavia, a me pare, la comunità cattolica non è divisa a metà e la divisione non riguarda la libertà e la democrazia, due beni desiderati dalla grande maggioranza dei cattolici e dei cittadini. La divisione riguardava piuttosto in che misura e in che forme avrebbe dovuto apertamente sostenere il movimento di protesta. C’era divisione anche sull’opportunità da parte del movimento di accettare risultati parziali piuttosto che continuare con manifestazioni di massa. Una divisione sui mezzi, certamente non sui fini.

C’è da dire, secondo me, che la divisione è aumentata anche a causa della mancanza di un vescovo che governi con piena autorità. I cattolici di Hong Kong avrebbero accettato le direttive di un pastore scelto, in piena libertà, dalla Santa Sede. Ciò sarebbe stato possibile due anni fa, dopo la morte del vescovo Michael Yeung, avvenuta all’inizio del gennaio 2019. Il vescovo morì dopo una lunga malattia, e quindi la sua morte non ha colto di sorpresa. Per quanto riguarda il movimento popolare che ha cambiato tutto, è iniziato solo nel giugno successivo. Si è perso dunque del tempo prezioso e, credo, sufficiente. Ora, più si aspetta, più i cattolici si insospettiscono sul fatto che il vescovo possa essere scelto sotto interferenze o pressioni di Pechino.

Per quanto ne so, la maggior parte dei cattolici di Hong Kong è sinceramente delusa. Mentre hanno attraversato la più grande difficoltà dai tempi dell’invasione giapponese, la Santa Sede ha taciuto. E loro (i cattolici di Hong Kong) difficilmente comprendono il silenzio di oggi sulla testimonianza offerta da leader cattolici rispettati e popolari ora in carcere (come la giovane Agnes Chow) o in attesa di processo (come l’anziano Martin Lee). Educati nelle parrocchie, scuole e associazioni cattoliche, sono entrati nell’impegno politico e sociale per lealtà alla loro fede e coscienza cattolica.

Mi chiedo se “non agire” a causa di una divisione sia una buona politica. La missione della Santa Sede riguarda anche aiutare a risolvere le divisioni locali. Non scegliere un nuovo vescovo appare come un inadempimento al dovere, soprattutto in un momento di grave tensione interna alla comunità e la spaventosa prospettiva che attende l’intera città in questo triste passaggio epocale.

Può essere vero, come suggerisce Gallagher, che le “grandi dichiarazioni” non producono necessariamente buoni risultati. Ma allora perché il Vaticano interviene in questioni che riguardano le cose del nostro mondo, le nazioni, i loro governanti. Tornando al caso di Hong Kong e della Cina: qual è il sottinteso di questa affermazione? Il Vaticano non può parlare per paura di ritorsioni?

Infine il lungo discorso di Gallagher sulla democrazia è un po’… troppo lungo. Io penso che la libertà sia certamente un valore evangelico, poiché Gesù è l’autore della nostra libertà; la democrazia non è, tecnicamente, un imperativo evangelico. Ma la responsabile partecipazione personale alla vita pubblica per il bene comune è uno dei cardini della dottrina sociale cattolica. Violenza, uccisioni, arresti indiscriminati, torture, oppressioni e brutalità di ogni genere, dovrebbero essere semplicemente condannati, in nome del Vangelo.

L’enciclica “Fratelli tutti” ha parlato del significato dei movimenti popolari per una “conversione politica”. Credo che a Hong Kong nel 2019 e nel 2020 e ora in Myanmar abbiamo visto movimenti popolari in azione. In Hong Kong è stato pacifico (ad eccezione di episodi violenti la cui provenienza non è stata indagata in modo indipendente) e sostenuto con uno schiacciante risultato elettorale lo scorso 24 novembre 2019. Un movimento guidato da giovani, generosamente impegnati per dare un futuro migliore alla loro città. È stato un momento di grande speranza per Hong Kong, per la Cina, per l’Asia e per il mondo. Tuttavia, è stato soppresso con poca reazione da parte del mondo, convenientemente impegnato con la pandemia. Nessuna reazione invece da parte del Vaticano, al punto che i cattolici si sono sentiti abbandonati. Lo trovo davvero triste.

Temo che i responsabili del colpo di stato militare del 1° febbraio in Myanmar abbiano pensato che, dopo l’esito di Hong Kong, avrebbero potuto farla franca anche loro. La resistenza dei giovani birmani (a tutt’oggi 270 dei quali brutalmente uccisi e migliaia arrestati) e la preghiera di suore inginocchiate davanti a plotoni armati della polizia, li hanno smentiti.