Spose bambine, l’ultima tragedia per le donne Rohingya

Spose bambine, l’ultima tragedia per le donne Rohingya

A centinaia, negli ultimi anni in cui la persecuzione si è accentuata nello Stato occidentale birmano di Rakhine, anche appena dodicenni, sono state date in matrimonio a individui che promettono loro la libertà e la sicurezza in cambio del matrimonio

 

Le storie terribili di infanzia negata a molte bambine e giovani donne in aree di conflitto o di persecuzione sono parte di una realtà che purtroppo sembra arricchirsi di nuovi fronti. Quella dei Rohingya, perseguitati in Myanmar perché senza diritto di cittadinanza e perché musulmani, è una realtà minoritaria, dato che coinvolge “solo” tra 1,3 e 1,5 milioni di persone, ma si conferma ugualmente come quella che già le Nazioni Unite hanno definito “la peggiore al mondo”. Costretti alla fuga, sono sovente trasportati da trafficanti senza scrupoli e con gravi rischi personali verso Paesi musulmani, considerati più aperti alle loro istanze rispetto ad altri di fede non islamica.

Ora però sta venendo alla luce il crescente numero di matrimoni a cui sono costrette giovani Rohingya, spesso appena adolescenti. Una realtà che si colloca all’incrocio tra tratta, necessità economiche e di sicurezza per tante minorenni, i cui legami con le famiglie d’origine si sono sovente allentati. A sposare queste ragazze sono in maggioranza maschi Rohingya da tempo residenti in Malaysia che pagano cifre anche ingenti per potere disporre di una giovane della stessa etnia, «acquistata» dai trafficanti nei periodi di detenzione sulle imbarcazioni o in campi nella foresta al confine thailandese-malese, durante il viaggio dal Myanmar o dai campi profughi in Bangladesh.

A centinaia, negli ultimi anni in cui la persecuzione si è accentuata nello Stato occidentale birmano di Rakhine, anche appena dodicenni, sono state date in matrimonio a individui che promettono loro la libertà e la sicurezza in cambio del matrimonio. Un’alternativa meno brutale ma certamente non ideale per giovani costrette a sfuggire in Myanamr le violenze dei nazionalisti buddhisti e dei militari che anche nei rastrellamenti da ottobre alla scorsa settimana si sono resi responsabili di eccidi, stupri di gruppo e devastazione contro i Rohingya. Una realtà evidenziata da più parti, incluso l’Alto Commissaria delle Nazioni Unite per i Diritti umani, ma negata dai militari birmani, anche se inchieste sono state aperte contro alcuni di loro e contro appartenenti alla polizia.

La triste realtà di molte giovani è l’estensione drammatica di una prassi con cui molte famiglie hanno nel tempo cercato per le proprie figlie una prospettiva meno precaria, acconsentendo a matrimoni combinati con Rohingya all’estero. Il problema viene ora amplificato dalla circostanza che questa situazione è stata infiltrata dai trafficanti di esseri umani. Non a caso – sottolinea Matthew Smith, direttore dell’organizzazione per la tutela dei migranti e dei rifugiati Fortify Rights – negli ultimi mesi, in concomitanza con l’offensiva militare nel Rakhine, si è assistito a un picco nel numero di spose bambine di cui si è venuti a conoscenza.

Il governo della Malaysia, Paese dove il fenomeno è particolarmente presente e che non è firmatario della Convenzione Onu per i rifugiati, ha un certo grado di responsabilità nella situazione. Da un lato non perseguendo questo tipo di fenomeni, dall’altro negando istruzione, lavoro (se non illegale e sottopagato) e assistenza socio-sanitaria ai Rohingya che qui sono arrivati a migliaia. Solo la scorsa settimana a 300 rifugiati è stato concesso di accedere legalmente a un impiego in via sperimentale.