Quando don Maggioni ci diceva: «L’universalità è nel Dna del cristiano»

Quando don Maggioni ci diceva: «L’universalità è nel Dna del cristiano»

Ci ha lasciato oggi a 88 anni don Bruno Maggioni, biblista attento alla missione e grande amico del Pime. Tra i tanti suoi articoli pubblicati su «Mondo e Missione» proponiamo in sua memoria una pagina in cui partendo dal Vangelo ci ricordava che «nessun popolo potrà mai vantare di possedere il Cristo in proprio»

 

Si è spento oggi nella sua casa di Como all’età di 88 anni don Bruno Maggioni, grande biblista e per tanti anni vicino al mondo della missione e alla nostra rivista in modo particolare. Come ricorda bene il sito della diocesi di Como don Maggioni ha dedicato la sua intera vita all’approfondimento, allo studio e all’insegnamento delle Scritture come docente di Teologia biblica e autore di centinaia di pubblicazioni. Ma ai missionari del Pime ha soprattutto ricordato quanto l’annuncio del Vangelo «ad gentes» stia al cuore delle Scritture. Per questo vogliamo stasera ricordarlo ripubblicando uno dei suoi tanti articoli scritti per «Mondo e Missione», pubblicato nel 1996 e intitolato «L’universalità è nel Dna del cristiano»

 

“Libro dell’origine di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo”: con questa annotazione Matteo inizia il suo vangelo (1,1). Lo scopo immediato è dimostrare che Gesù discende da Davide, come le profezie prevedevano. Tuttavia l’evangelista si premura di precisare subito che per comprendere l’origine di Gesù occorre risalire sino ad Abramo. Questo perché Davide rappresenta la linea della razza e del sangue, una linea «particolaristica» del tutto insufficiente per cogliere veramente il significato del farsi uomo del Figlio di Dio. Abramo, invece, rappresenta la linea della gratuità e la direzione universale, missionaria di ogni elezione particolare (Gn 12,2-3).

Anche se profondamente inserito in un popolo, Gesù è per il mondo, e la sua venuta non è merito di alcuno, ma puro dono dell’amore di Dio per ogni uomo. Nessuna razza e nessun popolo – neppure Israele, neppure la Chiesa – potranno mai vantare di possedere il Cristo in proprio. Nell’albero genealogico che immediatamente segue (1,2-16), Matteo menziona quattro donne: Tamar, Racab, Rut, la moglie di Uria. Perché proprio queste quattro e soltanto loro? Probabilmente per due ragioni. Perché si tratta di donne straniere: Gesù è figlio dell’umanità, la sua parentela si allarga al mondo. E perché si tratta di donne in qualche modo legate a situazioni di peccato: la parentela di Gesù include giusti e peccatori. La sorprendente conclusione di queste frettolose annotazioni è che nel «libro dell’origine di Gesù» vengono sconvolte le due principali distinzioni – cittadini e stranieri, giusti e peccatori – che da sempre la società utilizza per catalogare, separare ed emarginare.

Di solito si costruisce un albero genealogico per distinguere le proprie origini dalle altre. L’intento di Matteo è l’opposto: non separare ma unire, non contrapporre ma collegare. È, questa, la direzione costante di ogni autentica missionarietà evangelica già inscritta, quasi fosse un codice genetico, nelle stesse origini di Gesù. Il paradosso è che Gesù è il solo che potrebbe veramente vantare una diversità. La linea orizzontale delle sue origini, è, infatti, attraversata da una linea verticale che vi ha introdotto un’assoluta novità: egli è il Figlio di Dio, generato per opera dello Spirito. Gli uomini si illudono di affermare la propria originalità separandosi. Gesù, invece, è il rivelatore di un Dio che esprime la sua novità e la sua trascendenza facendosi vicino. «Io sono con voi» è a sostanza del nome che Dio ha rivelato a Mosè. «Emmanuele», Dio con noi, è il nome di Gesù (1,23). E con lo stesso nome Gesù saluta i suoi missionari: «Ecco, io sono con voi» (28,20). Con questo nome il vangelo di Matteo si apre e si chiude. Non c’è altro nome nel quale cercare salvezza.

Una seconda pagina missionaria del vangelo dell’infanzia è l’episodio dei Magi (2,1-12). Il racconto è costruito sulla falsariga di un passo che si legge nel libro del profeta Isaia (60,1-6): se ti alzi, volgi lo sguardo attorno e guardi, ti accorgi che nel mondo immerso nella nebbia splende una città luminosa, e l’immensa carovana dei popoli è in cammino verso la sua luce. Uno spettacolo grandioso e realissimo, ma per vederlo devi smettere di ripiegarti su te stesso («alzati») e devi guardare oltre il tuo angusto orizzonte («volgi lo sguardo attorno»). I Magi che giungono a Betlemme sono le avanguardie di questa carovana, le primizie dei pagani che si aprono al vangelo.

Il racconto dei Magi è dunque una pagina missionaria, una solenne dichiarazione di universalismo. Il popolo di Dio ha sempre vissuto una difficile tensione tra universalismo ed elezione. La soluzione non sta nel negare l’elezione, ma nel comprenderla come servizio. Il racconto dei Magi va letto insieme alla conclusione del vangelo: «Andate, dunque, istruite tutte le genti» (26,18). Due pagine missionarie che aprono e chiudono la storia di Gesù, ma la seconda rovescia lo schema della prima. Nell’episodio dei Magi sono le genti che arrivano a Gerusalemme: il Cristo è una luce che attrae. Nelle ultime parole di Gesù è la comunità dei discepoli inviata al mondo. La missione non è soltanto attesa, attrazione e accoglienza, ma ricerca