Le nostre parabole turche

Le nostre parabole turche

Roberto e Gabriella Ugolini, con la figlia Costanza, per 21 anni hanno operato come missionari fidei donum nel remoto Est dell’Anatolia, in un’area a prevalenza curda meta di profughi afghani e iraniani. Un’esperienza che oggi raccontano in un nuovo libro

Mentre Roberto e Gabriella raccontano, davanti agli occhi pare di vedere scorrere i tanti volti che hanno incrociato nella loro lunga esperienza turca: ci sono i bambini della piccola scuola nata nella discarica di Van, i “contrabbandieri” che per sopravvivere varcano di notte a cavallo il confine montagnoso con l’Iran portando taniche di benzina, la profuga afghana Fatma, che per arrotondare affitta tappetini per la preghiera fatti di cartone di riciclo, o il pastore incontrato in un campo a cento chilometri dalla città che, per non venire meno alla regola sacra orientale dell’ospitalità, offre alla coppia di sconosciuti due monetine così da poter bere un çay caldo in una sala da tè lungo la strada di ritorno.
«Durante i 21 anni che abbiamo vissuto in Turchia ci è stata regalata la possibilità di vedere tante immagini che altrimenti avremmo potuto solamente leggere nella Bibbia», commentano i due coniugi di origine fiorentina che, dopo essersi imbattuti per caso – «ma “caso” è uno dei nomi di Dio», sottolineano – nel fascino dell’Anatolia degli anni Ottanta, nel 2000 insieme alla loro figlia Costanza scelsero di trapiantare la propria famiglia nel remoto Est del Paese per un servizio come missionari fidei donum.
«Molti dei nostri compagni di viaggio sono stati per noi immagine e concretizzazione dei personaggi delle parabole», continuano i coniugi, che nel corso della loro presenza tra Şanliurfa, la città del patriarca Abramo, le montagne di Van e più di recente Istanbul hanno portato avanti uno stile di missione fatto di condivisione della vita quotidiana delle persone, in particolare le più povere ed emarginate. E che oggi, rientrati in Italia (si sono stabiliti a Ragusa), hanno provato a raccontare la loro intensa esperienza nel libro Cristalli di neve e fiocchi di cotone, in uscita per l’editrice Emi.
Perché proprio la Turchia?
«È stata una scelta maturata gradualmente. Per molti anni abbiamo visitato il Paese durante le vacanze, e pian piano abbiamo cominciato a conoscere sempre più in profondità questa terra e la sua gente, compresi i cristiani: greco-ortodossi, armeni, siriaci… tante Chiese orientali a volte poco note e che cercano di mantenere la propria presenza e identità lottando con le unghie e con i denti. A un certo punto è nato in noi il desiderio di impegnarci al servizio della comunità cattolica latina e, su invito dell’allora vicario apostolico dell’Anatolia monsignor Ruggero Franceschini, ci siamo stabiliti a Şanliurfa, proprio vicino al confine siriano, una città mista la cui popolazione è composta da curdi, turchi e arabi».
Come descrivereste la Chiesa di Turchia?
«Piccola, minoritaria e oggi in profondo mutamento: se prima la comunità era costituita essenzialmente dai levantini, di origine francese o greca, e dunque i sacerdoti non avevano nemmeno bisogno di conoscere il turco per assistere i fedeli, di recente sono arrivati numerosi presbiteri giovani, soprattutto da Africa e Asia, che hanno studiato la lingua locale e sono in grado di interagire con la società turca. La Chiesa ha compreso l’importanza dell’inculturazione. A frequentare le parrocchie sono soprattutto gruppi di espatriati arrivati per lavoro e molti profughi: iracheni, siriani, afghani, iraniani. Proprio con loro abbiamo condiviso la maggior parte del nostro tempo, oltre che con i curdi, cittadini autoctoni del Sud-est turco le cui vite sono pesantemente influenzate dal conflitto tra guerriglia autonomista e governo».
Qual è la Turchia che avete conosciuto al vostro arrivo?
«Era una realtà più semplice, più povera e rurale rispetto a oggi; c’erano maggiori opportunità di contatto con la gente. Oggi molte cose sono cambiate. Anche a Van, che è un centro a 1.700 metri di altitudine in una zona povera circondata da catene montuose, ormai sono sbarcate le grandi catene di negozi, tutte “omologate”, e il turismo straniero, in particolare dall’Iran, ha creato un boom di strutture ricettive: solo fino a tre anni fa in città c’erano venti alberghi, oggi sono quasi duecento».
A che cosa vi siete dedicati principalmente?
«Al di là delle attività concrete, soprattutto nel campo dell’istruzione, ci siamo concentrati sempre sull’incontro con le persone, non con l’obiettivo di fare proselitismo ma per condividere la nostra gioia di essere cristiani e la riscoperta più consapevole della nostra fede. Quando siamo partiti dall’Italia per noi è stato un salto nel buio: abbiamo lasciato il lavoro, gli amici… L’abbiamo fatto perché, come dice il Vangelo, avevamo scoperto la perla preziosa nel campo e dunque abbiamo scelto di “comprare il campo e custodire la perla”. Poi, giorno per giorno, abbiamo adeguato il nostro impegno alle esigenze che vedevamo intorno a noi, come quella legata ai primi arrivi dei profughi afghani e iraniani. Grazie a nostra figlia Costanza, che si era inserita come volontaria in un’associazione di donne curde, avevamo modo di conoscere molte persone bisognose: andavamo a trovarle, a volte le aiutavamo materialmente e così sono nati rapporti e vere amicizie».
Qual è la peculiarità di essere missionari come famiglia?
«È stata la nostra forza. Sia sul fronte della condivisione dell’esperienza tra noi, sia dal punto di vista dell’efficacia dell’impegno: io da solo, come uomo, in quel contesto non avrei potuto realizzare quasi niente! Per esempio, non potevo assolutamente entrare in una casa se non era presente un uomo, cosa che invece non creava alcun problema quando ero insieme a Gabriella e Costanza. Essere una famiglia, inoltre, è una chiave per essere più credibili agli occhi della gente e potersi avvicinare in modo naturale alle persone».
Che cos’è per voi il dialogo interreligioso?
«È quello semplice e familiare, in cui ci si confronta sulle rispettive tradizioni davanti a un bicchierino di çay, ma soprattutto quello che si costruisce creando relazioni di fiducia reciproca. Come quando un gruppo di notabili musulmani garantì per noi di fronte al proprietario di una casa che stavamo per affittare, che aveva ricevuto delle rimostranze da parte dei nostri futuri vicini di casa, contrariati all’idea di vivere a fianco di una famiglia cristiana…».
Nel libro vi chiedete se la vostra missione sia servita a cambiare in qualche modo le cose: che cosa vi rispondete?
«Semplicemente abbiamo dimostrato che è possibile – e bello – vivere insieme. Qualche volta, poi, abbiamo fatto partire dei piccoli processi. Di recente una ragazza, figlia di una famiglia che avevamo aiutato tempo fa e che ora vive negli Stati Uniti, ci ha detto: grazie a voi ho sperimentato che cosa significhi avere qualcuno che si prende cura di te quando fuggi dalla tua terra, per questo negli Usa ho cercato delle associazioni in cui fare volontariato per restituire ciò che avevo ricevuto». MM


IL LIBRO 

Si intitola “Cristalli di neve e fiocchi di cotone” (Emi, pp. 160, euro 15) il libro in cui Roberto Ugolini racconta i 21 anni di missione in Turchia con la sua famiglia. La prima presentazione sarà il 27 ottobre (h. 20.30) al Centro missiona­rio dioce­sano di To­rino