Quei giovani che resistono, nelle frontiere del mondo

Quei giovani che resistono, nelle frontiere del mondo

Dal Simposio tenuto da AsiaNews in occasione del Sinodo le storie dei giovani di alcuni Paesi dove ancora oggi è difficile essere cattolici. Il cinese Giovanni Pang: «Quando hanno interrotto la nostra Via Crucis degli universitari abbiamo sperimentato che cosa sia la croce di Gesù»

 

«Mi faccio portavoce dei giovani che vedete accanto a me, ai quali ho chiesto di parlarmi. Cercherò di dar loro voce». Padre Luca Bolelli è seduto all’aperto nel villaggio di Kdol Leu, in Cambogia, circondato da ragazzi che sorridono. In un breve video ha raccontato la sua testimonianza di missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime) e come parroco da nove anni di questo piccolo villaggio in Cambogia. Le sue parole sono risuonate nel salone della sede di AsiaNews di Roma, per l’annuale appuntamento del “Simposio di AsiaNews”, dedicato proprio ai giovani in occasione del Sinodo in corso in Vaticano. «Giovani che resistono: testimonianza da Iraq, Cina, Cambogia, Brasile» è stato il titolo dell’evento svolto il 16 ottobre e introdotto da Padre Bernardo Cervellera, missionario del Pime e Direttore di AsiaNews.

Padre Luca dalla Cambogia ha raccontato le sfide di oggi tra spopolamento delle campagne e boom di nascite negli anni Novanta che ha dato vita a una società in cui l’età media è ventidue anni. Tra paure e aspettative, molti giovani decidono di spostarsi nelle grandi città, dove tutto è più difficile, non avendo a disposizione una rete di relazioni familiari. La Cambogia è un Paese dove il 93% della popolazione è buddhista. «Essere cristiani qui non è facile – spiega il missionario -. I ragazzi raccontano spesso che mostrare la propria appartenenza religiosa, a scuola o in altri ambienti pubblici, è rischioso perché li espone alla critica e alla derisione da parte di chi pensa stiano tradendo la loro identità cambogiana».

In ogni caso la situazione ultimamente sta cambiando in meglio e non vi è più l’astio di un tempo, quando sui cristiani giravano strane voci. «La fede per loro è la certezza di non essere soli, ma sempre alla presenza e in compagnia del Signore Gesù – afferma Padre Luca -. Avere sempre il Signore accanto, camminare con Lui e insieme a Lui dà loro molta forza, luce nelle scelte che devono prendere e coraggio nel portarle avanti. Conoscere o non conoscere Gesù fa una differenza enorme».

Giovanni Pang, educatore a Hong Kong, ha portato di persona la sua testimonianza in cantonese con l’aiuto di un traduttore. «Il recente accordo tra la Santa Sede e la Cina è la cosa migliore che poteva accadere», spiega Giovanni Pang, ma ci sono molti problemi con i giovani. In Cina i giovani vogliono tutto e subito e non sono disposti ad aspettare: ecco perché la famiglia, la scuola, la Chiesa non riescono a soddisfare le loro aspettative. Giovanni Pang ha raccontato anche due casi esemplificativi in cui i giovani si sono sentiti abbandonati: la storia del processo a un sacerdote per una semplice iniziativa per giovani e la storia di una sfortunata via crucis di un gruppo di universitari.

Un parroco qualche anno fa aveva deciso di organizzare un incontro sul tema di Halloween per attrarre molti giovani e poter poi parlare di Dio. All’evento alcuni giornalisti presenti avevano fatto domande sul diavolo: “Chi è per te?”. “Gli speculatori edilizi e i costruttori sono come diavoli perché entrambi trascinano nel materialismo”, aveva risposto il parroco. La diocesi ha ricevuto lamentele dai ricchi locali sempre più intense, fino a che dopo un anno il sacerdote è stato chiamato a rispondere davanti ad autorità ecclesiastiche locali. «Sto subendo un processo per una vostra preoccupazione politica – ha detto -. La Chiesa dovrebbe essere a fianco dei giovani, altrimenti rischiamo di spostarci verso i ricchi e chi ha potere».

La seconda storia raccontata dall’educatore di Hong Kong è accaduta nella Cina continentale in un campo estivo di giovani universitari. Erano circa cento i ragazzi in cammino durante un evento di drammatizzazione della via crucis, sviluppata in un percorso di trenta minuti, con tappe precedentemente preparate. Alla settima stazione cinque grosse auto nere si sono fermate davanti al gruppo, chiedendo di far cessare l’evento. I giovani si sono ritrovati poi alla fine del percorso, in ginocchio e in lacrime. «Dovevamo continuare a camminare, ma non era necessario forse – ha detto un giovane -: in questo modo abbiamo sperimentato la crocifissione di Gesù». «Quegli studenti universitari piangevano perché sanno che non è facile essere cattolici», ha spiegato l’educatore Giovanni Pang.

La stessa difficoltà si incontra in Iraq, come ha spiegato Padre Paul Thabet Mekko, sacerdote a Karamles, Piana di Ninive. «La situazione dei giovani cristiani non è buona perché l’Iraq è diviso per gruppi etnici e religiosi e i cristiani sono una minoranza, spesso esclusi dalla società». Dopo l’avvento dell’Isis le difficoltà si sono fatte più aspre, in quanto i cristiani sono stati cacciati dalla Piana di Ninive e vivono come profughi in altre parti dell’Iraq. Molti hanno perso il lavoro, hanno lasciato la scuola e l’università. «La nostra missione come Chiesa, nata nel I secolo, è rimanere in Iraq. E noi quindi, oltre ad aiuti materiali, facciamo attività spirituale e pastorale», racconta Padre Paul. Questo supporto è stato continuativo durante tutti gli anni della fuga da Ninive.

«Dopo la liberazione di Ninive, sono tornato nel mio villaggio e ho fissato una croce sulla collina. – ha detto il sacerdote -. Nessuno credeva mai che dopo l’avvento dell’Isis, che ha distrutto tutti i simboli religiosi, poteva mai succedere qualcosa di simile».

Ora siamo in una seconda fase per il Paese: è il momento della ricostruzione. «Come possiamo infondere speranza nella gente?», si chiede Padre Paul. Si è iniziato da gesti simbolici, quali per esempio ripulire tutti insieme la chiesa di Santa Barbara nella Piana di Ninive. Sono stati poi organizzati incontri con la gente per ragionare sulla missione, l’identità, l’appartenenza al territorio della minoranza cristiana, per chiedere aiuto materiale alle istituzioni religiose e ad altre organizzazioni.

«Non avevamo acqua, c’era odore di bruciato nelle case, quando siamo tornati, ma dovevamo sacrificare la paura e la pigrizia, per dare speranza ai giovani perché potessero ricominciare la loro vita». Oggi 400 su 700 case sono ricostruite e il 45% delle famiglie è ritornato. Le sfide di oggi vertono sulla ricerca di occasioni di dialogo con i musulmani e sulla creazioni di nuovi posti di lavoro. «Malgrado tutto, abbiamo molte vocazioni e matrimoni celebrati sia nella fuga che dopo il ritorno. Questo ci dice che la vita continua e per vivere come cristiani qui ci vuole fortezza e speranza. Dobbiamo essere cristiani in questa terra», spiega il sacerdote iracheno.

Dal Brasile in un video è poi giunta la testimonianza di Padre Marcelo Farias dos Santos, missionario Pime destinato in Giappone. «Io sono un frutto del lavoro del Pime in Brasile, la mia vocazione è una conseguenza del sacrificio d’amore di tanti missionari», ha detto. Il sacerdote, appartenente a una famiglia cattolica, è cresciuto infatti incontrando sacerdoti missionari e, così, ha avuto il desiderio di essere come loro. I giovani di oggi, secondo il sacerdote, vogliono qualcuno che condivida con loro le gioie e le fatiche di ogni giorno, di cui hanno fiducia, che dia loro risposte. «Sono stato convinto da uomini credibili, per questo sono felice e fiero della scelta che ho fatto – ha concluso Padre Marcelo -. Non vedo l’ora di partire per il Giappone, proprio per potermi sentire un po’ come loro».