Due sotto il burqa

Due sotto il burqa

Una commedia di una regista franco-iraniana racconta le seconde generazioni, i conflitti fra chi si sente integrato e chi non lo è, e la deriva verso il fanatismo islamico, con sensibilità e umorismo.

Sono musulmani nati in Occidente e spesso hanno il passaporto del Paese che ha accolto la loro famiglia. Hanno frequentato scuole europee e non si distinguono dai loro coetanei per comportamenti, gusti musicali, amicizie. Poi, d’improvviso, succede qualcosa. Quell’Islam vissuto come un’eredità familiare diventa ragione di vita, si tramuta in fanatismo e nei casi più estremi porta al terrorismo. Come è accaduto ad Adel, 19 anni, figlio di insegnanti, che lo scorso anno in Normandia ha ucciso un sacerdote. O a Youssef, 22 anni, papà marocchino e mamma bolognese, uno dei gli attentatori di London Bridge nel giugno scorso.

Da tempo sociologi, psicologi, giornalisti si interrogano sulle ragioni che portano alla radicalizzazione. Lo ha fatto anche una regista francese d’adozione, con una commedia che vuole far sorridere, ma anche riflettere. Si intitola Due sotto il burqa, un titolo italiano forse non azzeccatissimo perché ciò che vediamo nel film, in realtà, non è un burqa – il velo integrale con la grata, di tradizione afghana – ma è un niqab, il velo nero integrale che copre completamente la donna lasciando liberi soltanto gli occhi, molto usato nei Paesi del Golfo.

Nata nel 1978 in Iran, Sou Abadi vive in Francia dal 1994. Fino all’età di 15 anni, è cresciuta sotto il regime teocratico khomeinista. In questo film, ha voluto raccontare la storia di un gruppo di giovani parigini di seconda generazione, tenendosi alla larga dagli stereotipi. I protagonisti, infatti, non sono i soliti ragazzi arrabbiati di periferia, invischiati in storie di piccola delinquenza, come spesso immaginiamo i figli degli immigrati.

Leila, di origine maghrebina, è una brillante studentessa di Scienze Politiche, che vince uno stage a New York alle Nazioni Unite. Progetta di andarci con Armand, compagno di studi e suo innamorato, che ha un nome francese, ma è figlio di due iraniani comunisti, rifugiati politici con tanto di statuetta di Lenin in soggiorno. A pochi giorni dal viaggio, ricompare Mahmoud, il fratello maggiore di Leila, che si era trasferito per un periodo di lavoro nello Yemen. Quest’esperienza ha provocato in lui una metamorfosi: da ragazzo gentile, è diventato un fanatico dell’Islam radicale. Rinchiude in casa la sorella e le sequestra il cellulare, e progetta di rieducare nello Yemen anche il fratello minore. Per Armand, l’unico modo per avvicinare la sua innamorata è travestirsi da donna. Diventa così Sherazade, una ragazza musulmana devota che gira in niqab. Per essere credibile Armand, che di Corano ne sa ben poco, si tuffa nello studio dei testi sacri e della poesia persiana, dispensando pillole di saggezza così perfette che Mahmoud finisce per innamorarsi perdutamente della misteriosa Sherazade.

Interessante è proprio il ritratto che Abadi, che è anche la sceneggiatrice del film, fa di Mahmoud. Orfano di genitori, proviene dalla classe media e cova un risentimento nei confronti della società perché sente di non avere le stesse opportunità degli altri. È una sua sensazione, però: la sorella Leila, probabilmente più intelligente e studiosa, è proiettata verso una carriera interessante. «La scomparsa dei genitori ha causato una carenza affettiva in Mahmoud che lo ha reso fragile a tal punto da rifugiarsi nella religione, finendo per avvicinarsi pericolosamente all’integralismo», commenta Sou Abadi.

Un merito della regista risiede nel modo in cui racconta la periferia parigina, che non risulta abitata da gente immigrata, preda indistinta dei predicatori dell’odio. C’è Sinna, il fratello di Leila, che è credente ma vive la fede in modo personale; c’è Leila, che non è religiosa; c’è il francese Fabrice convertito all’Islam e diventato Farid, a caccia di risposte esistenziali nell’Islam. E c’è Mahmoud, che si sente investito del compito di guidare gli altri nella fede. Armand, che abita in una zona del centro, è invece il perfetto esempio della seconda generazione perfettamente integrata, che si disinteressa di tutto ciò che è iraniano.