Il missionario e il samurai

Il missionario e il samurai

Padre Luigi Soletta ha dedicato una vita a tradurre classici della letteratura giapponese. Una via di evangelizzazione tanto originale quanto faticosa, ma anche ricca di sorprese

 

Padre Luigi Soletta è, oggi, un ometto curvo sotto il peso dei suoi 83 anni, che si muove a fatica appoggiandosi a un bastone; la sua lucidità, inoltre, è minata dal Parkinson. Ma quello che mi sta davanti, a dispetto delle apparenze, è un gigante: un uomo che – formatosi presso i gesuiti di Sassari e scelta la vocazione missionaria grazie alla lettura di Mondo e Missione – ha dato un contributo originale, ancorché poco noto, alla missione del Pime in Giappone. Padre Soletta, inoltre, è stato fra i protagonisti della breve ma feconda avventura dell’Istituto Studi Asiatici, fondato dal Pime a Milano nel 1974.

Ascoltarlo – rispettando ritmi e fatica di un eloquio che ha conservato l’inconfondibile accento sardo – è un’esperienza emozionante: intravedi la passione di un uomo (e, dietro di lui, di un gruppo di missionari) che ha dedicato la vita a misurarsi con la ricchezza e l’asperità della realtà giapponese, in un corpo a corpo – culturale e spirituale – che ha richiesto moltissime energie, ma altresì ha regalato altrettanti doni e sorprese.

Una sensazione simile la provi nel leggere le pagine de “Il sole splende a mezzanotte” (Emi 2009). In quelle pagine padre Luigi ha riversato pensieri, riflessioni e frammenti di vita raccolti nell’arco di 40 anni di missione in Estremo Oriente. Ne viene fuori la figura di un prete dalla profonda spiritualità, che ha intrecciato con il Giappone una lunga storia di amicizia (nel senso profondo che Matteo Ricci darebbe a questa parola), arrivando persino a tradurre in italiano alcuni capolavori della letteratura classica nipponica. Una scelta a prima vista, “eccentrica”. L’intervista – nella quiete della casa che a Rancio di Lecco accoglie i missionari del Pime a riposo – parte proprio da qui.

Padre Soletta, perché un missionario dedica tempo ed energie a tradurre classici della letteratura, anziché testi liturgici o di argomento religioso?
Perché non possiamo non immergerci nell’arte giapponese, se vogliamo comprendere le profondità di una tradizione culturale ricchissima. Altrimenti che inculturazione è? Un lombardo lo puoi capire senza i Promessi sposi? In Giappone è lo stesso: i bambini cominciano a scrivere haiku a 4 anni. Prendiamo “Hagakure”, un capolavoro che ho tradotto (in parte, peraltro), e che trasmette l’antica saggezza dei samurai sotto forma di brevi aforismi. Conoscerlo è un modo per penetrare la cultura giapponese nelle sue pieghe più profonde. Non si capisce, ad esempio, il rapporto strettissimo, tipicamente giapponese, tra i dipendenti e l’azienda di appartenenza, se non dentro l’orizzonte culturale che “Hagakure” esemplifica.

Perché ha deciso di tradurlo?
Nel 1988 a chiedermelo fu il professor Kitajima, cattolico fervente, nonché vicepresidente dell’associazione “Ricerche sull’Hagakure” di Saga. Al mio rifiuto, insistette di nuovo e, con lui, il presidente del comitato, un non cattolico, insieme a un giornalista della NHK, la tv pubblica giapponese. Sapevo che si sarebbe trattato di un’impresa molto difficile, perché l’originale è in giapponese antico. Ma, alla fine, aiutato da una versione in giapponese moderno, ho realizzato un’antologia in italiano con 360 dei 1343 brani originali. Il libro è uscito nel 1993 per i tipi dell’Ave, subito salutato da una favorevole recensione dell’allora monsignor Gianfranco Ravasi sul Sole 24 Ore e da commenti positivi sui media giapponesi.

Non credo che lei si sia imbarcato in un’impresa così impegnativa solo per fare un favore a degli amici… Perché, allora?
Il motivo è legato all’importanza straordinaria di quest’opera. In Occidente un contributo importante alla conoscenza di “Hagakure” è venuto tramite Yukio Mi¬shima, scrittore molto famoso, morto suicida, per harakiri, nel 1970. In Europa abbiamo scoperto il termine “kamikaze” con la battaglia di Pearl Harbor e per noi è qualcosa di totalmente negativo. In realtà, valori come il coraggio e la donazione di sé sino all’estremo sacrificio fanno parte del patrimonio culturale del Giappone di sempre. Una curiosità: pochi lo sanno, ma il famosissimo romanzo di Susanna Tamaro “Va’ dove ti porta il cuore” prende il titolo proprio da un brano dell’Hagakure, come la stessa autrice rivelò in occasione di un suo viaggio in Giappone anni fa.

Quali i valori di riferimento del samurai?
Sono diversi: l’amore alla patria, l’idea del servizio (nel caso del samurai al suo signore, il “daimio”), l’amore disinteressato per il prossimo, la disponibilità al sacrificio totale della vita. Ovviamente, in un’ottica cristiana il suicidio come tale non è affatto un valore. Ma a me interessa (e lo reputo un valore) l’atteggiamento spirituale di radicale affidamento del samurai, l’obbedienza che egli vive, il suo mettersi in gioco per una causa nobile… Purtroppo non tutti lo capiscono: una volta, una suora, cui avevo illustrato i contenuti del libro, si scandalizzò che dedicassi il mio tempo a una cosa del genere.

Tutti questi ideali, però, sono stati strumentalizzati, a più riprese, dalla propaganda in chiave nazionalista.
Sì, il “Codice segreto del samurai” è servito anche per giustificare il militarismo esasperato piuttosto che l’obbedienza cieca alle autorità. Ma è proprio qui che entra in gioco il missionario: le culture contengono tanti aspetti di verità, misti ad altri assai discutibili. L’esercizio del discernimento, alla luce della fede, consente di valorizzare opportunamente i tesori di una cultura e, al tempo stesso, di prendere le distanze dagli elementi non compatibili col Vangelo. Per tale ragione, occorre conoscere in profondità le culture, con le loro varie sfumature. Del resto, proprio la storia complessa di questo libro (vedi box) documenta come siamo in presenza di un testo che fondamentale della cultura giapponese, ma da leggere con estrema attenzione.

Questo sforzo di comprensione della mentalità giapponese è al centro della sua autobiografia “Il sole splende a mezzanotte”…
Sì. Purtroppo, però, qualcuno lo ha mal interpretato… In quel libro, infatti, io cerco di mostrare, tra l’altro, la sintonia profonda tra alcuni aspetti della spiritualità zen e quella cristiana, in modo particolare riferendomi a un mistico quale san Giovanni della Croce. Ma c’è chi, vedendo la copertina e sfogliando distrattamente il libro, pensa che sia dedicato allo zen tout court. In realtà, io mi sono sì appassionato al Giappone e alla sua cultura. Ma a me stanno a cuore soprattutto Cristo e il Vangelo, che io ho cercato di annunciare al popolo giapponese.

Perché ha scelto quel titolo?
“Il sole che sorge a mezzanotte” ripropone una frase di un monaco zen. Per me è l’immagine-simbolo dell’illuminazione, che si raggiunge dopo un lungo cammino di ascesi e di meditazione. Penso la si possa considerare come uno dei “germi del Verbo”, presenti nelle religioni non cristiane. Forse proprio grazie a questa affinità profonda quel libro è arrivato anche in Giappone…

Ci spieghi…
Il professore Toshiski Yokohama – un amico giapponese, che ha insegnato per alcuni anni Letterature giapponese all’università di Sassari e ha scritto la prefazione alla mia versione italiana del “Codice segreto del samurai” – aveva letto “Il sole che splende a mezzanotte”. Ma lì per lì non ne era rimasto granché impressionato. Dopo il disastro di Fukushima, nel marzo 2011, però, si è impegnato a tradurlo in giapponese, perché vi ha rintracciato molti spunti – a suo dire – di estrema attualità.

Riavvolgiamo il filo della memoria: come è nato il suo impegno nel campo del dialogo culturale e interreligioso?
All’indomani del Vaticano II, noi missionari abbiamo capito più chiaramente che ci dovevamo “buttare” in modo nuovo e approfondito nel dialogo con i non cristiani. Io e i padri Celestino Cavagna (oggi del clero di Tokyo, ndr) e Allegrino Allegrini fummo demandati a interessarci di questo. Padre Cavagna si dedicò a studiare il buddhismo e realizzò uno studio ad hoc, padre Allegrini si iscrisse a una università scintoista, tessendo via via contatti con professori ed esperti e, a distanza di anni, pubblicò un libro dal titolo “La via della seta del cuore”. Io, a quell’epoca, ero impegnato nella gestione di una scuola materna, ma ho coltivato con passione studi personali, da autodidatta, valorizzando contemporaneamente tanti incontri che la vita missionaria ti permette di fare. Sento dire che i giovani missionari del Pime si stanno immergendo nel mondo culturale giapponese: non posso che incoraggiarli!

Oltre ad Hagakure, quali altri testi classici ha tradotto dal giapponese?
Nel 1994, volendo far conoscere in Italia la spiritualità dei monaci zen, ho pubblicato le “Poesie” di Ryokan, una sorta di “Buddha del Giappone”. In Italia è pressoché sconosciuto, ma in Giappone è un riferimento imprescindibile: basti dire che, nella cerimonia di consegna del Nobel per la letteratura del 1968, il vincitore, il giapponese, Kawabata Yasunari, citò ben cinque volte Ryokan. L’opera raccoglie 1550 poesie che hanno per tema la contemplazione della natura.
Nel 2000, in coincidenza col cinquantesimo della missione Pime in Giappone, ho pubblicato per la Emi “Pensieri nella quiete”, opera del monaco zen Yoshida Kenko (XIV secolo): una raccolta di riflessioni filosofiche sulla vita quotidiana, di usanze e cerimonie e della corte imperiale, di personaggi illustri… È un testo importante nella tradizione culturale giapponese: ancora oggi le case e i giardini giapponesi sono realizzati secondo le regole indicate da quel testo. Nel 2001 è uscita, sempre per l’editrice La vita felice, una raccolta di brevi componimenti (i celebri haiku) di Issa, monaco buddhista vissuto tra il XVIII e il XIX secolo. Issa, il cui vero nome è Kobayashi Yataro), è considerato uno dei massimi poeti giapponesi: ma ciò che lo rende speciale ai miei occhi è la sua ispirazione religiosa, dal momento che egli appartiene alla corrente buddhista cosiddetta “della Terra pura”, che presenta molte analogie con il cristianesimo.
Infine, nel 2008 ho realizzato la traduzione dei “Canti dell’eremo” (edizioni La vita felice), un’opera importante di Saygo, monaco-poeta del XII secolo: è uno degli autori più amati dai giapponesi e per me ha rappresentato una sorta di testamento spirituale.

IL SEGRETO DI HAGAKURE

L’ultima edizione del “Codice segreto dei samurai” nella versione di padre Soletta? è uscita l’anno scorso da Einaudi e la prefazione del noto giallista Carlo Lucarelli, “a riprova della sua perenne attualità”, chiosa il missionario. Un paradosso, se si pensa che stiamo parlando di un libro che risale al XVII secolo e del quale, a lungo, non si è saputo nulla.
L’autore di “Hagakure” è Yamamoto Tsunetomo, nato nel 1659. Apparteneva al feudo di Saga, dominato dalla dinastia dei Nabeshima, in lotta contro il famoso clan dei Tokugawa. Quando Yamamoto Tsunetomo nacque, però, le guerre civili erano finite e si stava aprendo un periodo di pace e prosperità, il che portò fatalmente al declino della figura del samurai. Yamamoto Tsunetomo accetta con riluttanza il nuovo contesto, finché non incontra un monaco zen che lo segnerà profondamente. Morto il suo daimio, Yamamoto non compie il suicidio rituale previsto per ogni fedele samurai (un decreto l’aveva messo fuorilegge nel 1661), ma diventa monaco buddhista e si ritira in isolamento in un monastero nella zona di Saga. Dieci anni dopo riceve la visita di Tashiro Tsuramoto, che diventa sua allievo e che, per sette anni, trascriverà puntualmente le loro conversazioni, le quali, raccolte in ben 11 volumi, formano “Hagakure”. Tsunetomo aveva ordinato di bruciare il manoscritto alla sua morte, ma il discepolo infrange il comando e il testo comincia a girare di nascosto tra i samurai di Saga, acquisendo in breve lo status di testo sacro. Solo nel 1868, dopo la riapertura del Giappone al mondo con l’epoca Meiji, Hagakure esce dalla clandestinità. Ma occorrerà attendere il1906 perché finalmente venga pubblicato. Da lì in poi è divenuto «il libro giapponese più celebre e controverso di ogni epoca», come hanno scritto due esperti. Già, perché con l’avvento della seconda guerra mondiale il libro divenne benzina sul fuoco del fanatismo dei giovani aspiranti kamikaze. Di lì l’ipoteca di testo militarista, che a lungo ha gravato sul volume. In realtà, letti senza pregiudizi, gli aforismi di Hagakure sono una via di mezzo tra le perle di saggezza orientale e qualcosa di simile ai “fioretti”, almeno per quanto concerne l’esercizio di virtù umane quali povertà, umiltà e spirito di servizio. z

 

PERLE DI SAGGEZZA

«Per seguire la Via il samurai deve mantenere l’attenzione sul momento presente e non vacillare, non avere pensieri mondani e non essere schiavo delle passioni. Ogni istante è importante e quindi è necessario concentrarsi sul momento presente».

«L’avidità, la rabbia e la stupidità vanno sempre insieme. Quando nel mondo accade qualcosa di male, se osserviamo con attenzione, vedremo che è in relazione con queste tre cose. Se guardiamo ciò che vi è di buono, ci accorgeremo che non manca di saggezza, umanità e coraggio».

«C’è un detto: “Se desideri sondare il cuore di un amico, ammalati!”. Chi si comporta da amico quando tutto va bene, ma poi volta le spalle come un estraneo in caso di malattia o di sventura è solo un vigliacco».

«Un detto che risale al tempo del daimio Katsushige insegna: “Metti il piede in fallo e cadi sette volte, otto rialzati e risorgi”. Il samurai dovrebbe sempre avere la libertà di mettere alla prova la sua forza spirituale».

«La Via del samurai va cercata nella morte. Si mediti quotidianamente sulla sua ineluttabilità. (…) Dobbiamo iniziare la giornata pensando alla morte».