Nuba sotto attacco

Nuba sotto attacco

Sono ricominciati un anno fa gli attacchi di Khartoum: oltre mille bombe sganciate, più di 420 mila persone in fuga. La drammatica testimonianza di padre Kizito Sesana dalle montagne Nuba

 

«SEMBRA DI ESSERE tornati indietro di quindici anni!». Non ha dubbi padre Renato Kizito Sesana, missionario comboniano che quindici anni fa, appunto, faceva conoscere in Italia (e non solo) il dramma del popolo nuba. Un popolo fiero e pacifico, oggi come ieri, accerchiato e isolato, massacrato dai bombardamenti e ancor più decimato dalla fame e dalle malattie. All’indomani di un ennesimo avventuroso viaggio nel cuore del Sudan, su queste montagne senza pace, padre Kizito è sconsolato e battagliero al tempo stesso. «Ho visto le stesse immagini di allora. Ho trovato le stesse situazioni di guerra, di fame, di malattia. Gente in fuga, che non sa bene dove andare… Con la differenza che un tempo si riusciva a entrare con voli clandestini e a portare qualche aiuto. Ora il governo di Khartoum ha potenziato le postazioni radar e antiaeree e, dunque, è impossibile entrare. Ufficialmente nessuno può portare aiuti umanitari».

Sono passati più di quindici anni ed è come se nel frattempo non fosse successo niente. E invece di cose ne sono successe molte. C’è stato l’Accordo complessivo di pace (Cpa), nel gennaio del 2005, che ha messo fine alla ventennale guerra tra Nord e Sud Sudan. Si è percorso un faticoso cammino verso il referendum per l’indipendenza del Sud, che si è tenuto nel gennaio dello scorso anno. E, soprattutto, è diventata realtà, il 9 luglio 2011, la nascita di un nuovo Stato, il 54° dell’Unione Africana: la Repubblica del Sud Sudan.
Eppure per le Montagne Nuba sembra non sia successo niente di tutto questo. Anzi, la pace e l’indipendenza del Sud si sono trasformate in un’arma a doppio taglio per le popolazioni nuba. Le quali hanno combattuto con e per il Sud, ma sono rimaste annesse geograficamente al Nord.

L’Accordo di pace del 2005 non ha voluto prendere in considerazione e chiarire situazioni ambigue come quelle del South Kordofan o del Southern Blue Nile. Del resto, ha lasciato zone d’ombra anche sulla definizione dei confini, che tuttora rappresentano motivo e pretesto di tensione e conflitto. E così, oggi come in passato, le popolazioni delle Montagne Nuba (circa un milione di persone) sono ripiombate nella guerra. Perché loro, i nuba, continuano a lottare per la loro libertà. Mentre il Nord continua a imporre le stesse logiche di oppressione e sterminio.
«Gli Antonov dell’aviazione di Khartoum sorvolano quasi quotidianamente i villaggi nuba – racconta padre Kizito – e spesso sganciano delle bombe. Raramente colpiscono con precisione i bersagli, perché volano molto alti, ma questo ovviamente crea paura e tensione tra la gente, che appena può fugge dai villaggi».

PIÙ DI MILLE BOMBE sarebbero state sganciate su obiettivi civili in South Kordofan nell’ultimo anno, colpendo indiscriminatamente molti piccoli centri e villaggi. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) stima che ci siano 185 mila rifugiati da South Kordofan e Southern Blue Nile in Sud Sudan ed Etiopia. Molti di più, circa 420 mila, sono invece gli sfollati interni, in condizioni disperate e bisognosi di aiuti umanitari urgenti.
La prima tappa del viaggio di padre Kizito è stata proprio il campo profughi di Yida, in Sud Sudan, a pochi chilometri dal confine con il Nord. Punto di partenza Bentiu, la “capitale” sudsudanese del petrolio. Sei ore di macchina su strade dissestate, tranne i primi chilometri che fiancheggiano i campi petroliferi. «Abbiamo trovato più di 23 mila persone nel campo di Yida. E ne arrivano circa 400 al giorno, soprattutto donne e bambini, malnutriti e disidratati, coperti di povere come fantasmi». Il 10 novembre, l’aviazione sudanese ha bombardato il campo, uccidendo 12 persone e ferendone gravemente almeno una ventina. «Come se questi profughi inermi e senza niente rappresentassero una minaccia per Khar¬toum!», protesta padre Kizito.

ALL’INGRESSO del campo c’è una capanna di paglia dove i fuggiaschi vengono registrati. La zona da cui scappano maggiormente è quella a ovest di Kadugli, la più colpita dai bombardamenti e la più fragile dal punto di vista della sicurezza alimentare, perché molto arida. E poi è la più vicina al confine con il Sud. E allora la gente fugge in massa, sobbarcandosi lunghi giorni di marcia, senza niente e sotto un sole che in questa stagione arroventa l’aria, con temperature che di giorno sono costantemente sopra i 40 gradi.
La situazione umanitaria è drammatica. Dentro e fuori il campo profughi.
«La guerra genera fame – continua il missionario -. La gente ha abbandonato case e campi all’inizio della stagione delle piogge; dunque, non coltivando, non ha di che mangiare. Spesso, è costretta a lasciare le terre fertili delle vallate per rifugiarsi in montagna, dove molti vivono nelle grotte, per ripararsi. E se si ammalano non sanno come curarsi. Ci sono moltissimi mutilati dalle bombe».

Gli unici ospedali ancora funzionanti nell’area controllata dall’Splm-N sono quello di Gidel e quello di Luwere, gestito da German Emergency Doctors. «A Gidel – aggiunge padre Kizito – c’è anche l’ospedale delle suore comboniane, con due religiose, una ugandese e una messicana, mentre una terza dirige la radio cattolica, l’unica, insieme a quella dell’Splm di Kauda, a fornire informazioni locali. Con loro, resiste tenacemente anche un medico americano molto dedito ai suoi malati. Tutto il resto è scoperto. C’è solo qualche ufficiale medico dell’Splm, che cura in capanne di fortuna con poche medicine a disposizione».

ANCHE LE SCUOLE sono praticamente tutte chiuse. «Quelle che avevamo costruito a Kujour Shabia e a Kerker funzionano come possono – dice padre Kizito -. Entrambe sono state spostate dalla valle alla montagna, per avere condizioni migliori di sicurezza, ma gli studenti sono pochissimi e ancor meno gli insegnanti, che sono tornati tutti a combattere. Per la stessa ragione, la scuola di formazione per insegnanti che avevamo aperto a Gidel è stata chiusa». Anche l’altra scuola per formatori è chiusa, così come tutte e sette le scuole secondarie presenti nella regione.
«A Kauda – continua il missionario – una delle poche cose buone che aveva fatto il governo di Khartoum, ovvero una scuola per 250 ragazze, con dormitori, è stata bombardata dalla stessa aviazione del Nord. La bomba è caduta a pochi metri ma, essendo molto potente, la scuola adesso è piena di crepe e inagibile».
Anche la cittadina di Buram, che si stava rapidamente sviluppando, oggi è una città fantasma, per metà rasa al suolo dai ripetuti bombardamenti. Anche qui, la nuova scuola è stata abbandonata dopo che le bombe l’hanno mancata per un soffio. «Abbiamo incontrato uno studente, Daniel, 15 anni, che era ancora in ospedale a Gidel – racconta -. Ci ha raccontato dello spavento quando ha sentito le bombe cadere e di come, in un disperato tentativo di cercare protezione, si sia abbracciato a un albero. Una scheggia di bomba ha colpito la pianta, tagliandogli entrambe le braccia appena sotto il gomito».

La gente non ne può più di questa guerra. Molti non hanno ancora dimenticato quella che sembrava finita qualche anno fa. Hanno ancora lutti da piangere e ferite dell’anima da curare. I più giovani, invece, si ritrovano invischiati in un conflitto di cui non capiscono le ragioni. «Nonostante tutto – dice padre Kizito – i nuba sono fiduciosi; sperano che si riesca a far cadere Bashir e che si possa finalmente costruire un Sudan secolare e democratico».
Intanto, però, anche le tensioni tra Nord e Sud aumentano. E sono venti di guerra quelli che soffiano di nuovo tra i due Paesi. Lo stesso missionario ha rischiato di rimanerci invischiato in prima persona.

«DI RITORNO A BENTIU – racconta – improvvisamente un aereo Mig è apparso in cielo e ha cominciato a lanciare bombe destinate all’unico ponte che attraversa il fiume Bahr el Ghazal, un collegamento fondamentale tra la città e i campi petroliferi più importanti. Ma anche l’unico che permette di proseguire in direzione delle Montagne Nuba. Ci siamo subito resi conto che ci trovavamo nel mezzo di un’altra guerra. Non eravamo più all’interno del conflitto scatenato da Khartoum contro i suoi stessi cittadini, i nuba. Eravamo ora nella guerra per il controllo dei giacimenti petroliferi, che continua a opporre Nord e Sud. Ma questa è un’altra storia. Che rischia, tuttavia, di essere altrettanto drammatica».

 

 

CRONOLOGIA
1956: indipendenza del Sudan
1972: fine della prima guerra civile tra Nord e Sud
1974: la fotografa Leni Riefenstahl pubblica The Last of Nuba, straordinario reportage fotografico che fa conoscere al mondo questa popolazione arroccata sulle montagne del South Kordofan. In realtà, questo popolo fiero e mite è sempre stato vittima di ripetute tragedie: tratta di schiavi, colonizzazione, isolamento, privazione di sistemi educativi e sanitari, violazione dei diritti umani, imposizione di un processo di arabizzazione e islamizzazione
1983: il governo di Khartoum impone la sharia. Scoppia la rivolta nel Sud, guidata dal Sudan People’s Liberation Army (Spla) a cui aderiscono anche i nuba
1989: colpo di Stato di Omar El Bashir, che rilancia il processo di arabizzazione e islamizzazione
1989: prima grande assemblea nuba, che conferma la volontà di opporsi all’oppressione anche culturale e religiosa del Nord
2001: il Sudan è accusato di legami con il terrorismo internazionale
2001: Muore Yusuf Kuwa, il grande leader del popolo nuba
2002: accordo di cessate-il-fuoco per la regione dei Monti Nuba
2002: firma del protocollo di Machakos tra Nord e Sud
2005, 9 gennaio: firma dell’accordo globale di pace, che mette fine alla guerra tra Nord e Sud. Restano aperti i capitoli Darfur, South Kordofan e Southern Blue Nile
2011, 9 gennaio: referendum per la secessione del Sud Sudan: i «sì» ottengono il 98,83 per cento
2011, giugno: riprendono i bombardamenti indiscriminati su obiettivi civili nelle Montagne Nuba
2011, 9 luglio: indipendenza della Repubblica del Sud Sudan

Una tragedia che si ripete

Oggi come in passato, i nuba si trovano intrappolati in una guerra nella guerra.
La loro regione è situata geograficamente a Nord, ma abitata prevalentemente da popolazioni nere, che si sono sempre riconosciute nella lotta contro il potere di Khartoum. Ancora oggi, gran parte della popolazione rifiuta il regime di Omar el Bashir, il presidente sudanese su cui incombe un mandato di cattura internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità per le atrocità commesse in Darfur.
Oppressi ed emarginati dal Nord, i nuba non possono più nemmeno contare – almeno ufficialmente e materialmente – sul sostegno del Sud. Il governo di Juba, infatti, a un anno dalla proclamazione dell’indipendenza, rischia di finire nuovamente invischiato in una guerra con il Nord, alimentata da quotidiane dichiarazioni belligeranti e da attacchi sul terreno da entrambe le parti.
Dunque, i nuba si ritrovano più soli che mai. Dal giugno dello scorso anno il presidente Bashir ha scatenato una guerra non dichiarata contro i nuba e il Sudan People’s Liberation Movement-Northern Sector (Splm-N), il movimento di liberazione, che si era costituito come partito politico e che rifiuta la politica accentratrice e islamizzatrice del governo sudanese.
«I membri del Consiglio di sicurezza – si legge in una dichiarazione del 14 febbraio 2012 – hanno espresso la loro profonda e crescente preoccupazione per l’aumento della malnutrizione e dell’insicurezza alimentare in alcune zone del South Kordofan e del Southern Blue Nile in Sudan, che potrebbero raggiungere livelli di emergenza se non immediatamente affrontate. La situazione potrebbe ulteriormente peggiorare anche a causa del mancato accesso del personale delle organizzazioni umanitarie internazionali per effettuare una valutazione della situazione e fornire assistenza urgente». Inoltre, il Consiglio di sicurezza «ha invitato il governo del Sudan a consentire l’accesso immediato al personale delle Nazioni Unite» e ha chiesto «al governo del Sudan e al Splm-N di collaborare pienamente con le Nazioni Unite e altre agenzie umanitarie» per consentire l’intervento umanitario.
Nonostante questa dichiarazione e una proposta tripartita (Onu, Unione Africana e Lega degli Stati arabi) per la fornitura di assistenza umanitaria a tutta la popolazione civile provata dal conflitto, il governo di Khartoum ha sinora sempre negato l’accesso alla zona controllata dal Splm-N, circa il 90 per cento del South Kordofan.
Attualmente, infatti, il governo del Nord controlla solo la cittadina di Kadugli e i suoi dintorni e quella di Dilling (120 km a nord, già nella piana) e ha una guarnigione a sud di Kauda (Talodi).
Il resto è controllato dai miliziani del Sudan Revolutionary Front, il fronte unitario che mette insieme i movimenti di tre regioni che per motivi diversi si oppongono al regime di Khartoum: il Justice and Equality Movement (Jem) e altri gruppi del Darfur, l’Splm-Nord delle Montagne Nuba e l’Splm-Sud del Southern Blue Nile.
Capo politico di questo fronte è Malik Aggar del Blue Nile; capo militare è Abdel Aziz Al Hilu, nuba; mentre segretario generale è Minni Minnawi, ex leader del Sudanese Liberation Army, del Darfur.
«Siamo più forti del governo sul terreno, ma non abbiamo aviazione», si lamenta Abdel Aziz che tuttavia, come molti nuba, è fiducioso. A suo dire, anche molti missiriya – arabi nomadi tradizionalmente alleati a Khartoum – sono passati dalla parte dell’Splm come combattenti.
L’obiettivo è far cadere il governo di Khartoum, sia con un’azione militare lanciata da diversi fronti, sia fomentando una rivolta politica interna, che dovrebbe coinvolge molti giovani sudsudanesi ancora immigrati al Nord.