Quell’ossessione di sbiancare i neri

Quell’ossessione di sbiancare i neri

Nell’immaginario occidentale, chi ha la pelle scura per secoli è stato demonizzato e bollato come inferiore, persino sporco. Un libro ricostruisce come proverbi, fiabe, libri, dipinti, pubblicità hanno contribuito a diffondere una visione distorta e razzista

Era uno dei beniamini dei bimbi negli anni del Carosello: Calimero, il pulcino piccolo e nero, che si lamentava delle ingiustizie che subiva perché diverso. Ogni volta, il lieto fine arrivava grazie a un detersivo, con cui veniva lavato per diventare “normale”. Oggi in una società più multietnica rispetto agli anni Settanta e più attenta a ciò che è politicamente scorretto, il messaggio di Calimero suonerebbe razzista. I pubblicitari hanno imparato a non urtare la sensibilità delle persone, anche se ogni tanto si scivola ancora su qualche buccia di banana. Come uno spot di Dove del 2017, in cui una bella ragazza nera grazie al bagnoschiuma diventava bianca. Poche ore dopo il lancio, il messaggio aveva suscitato una tale indignazione da costringere l’azienda a ritirarlo e a scusarsi.

Da questo episodio parte il libro, appena pubblicato da Utet, Sbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista di Federico Faloppa, docente di Linguistica e Italian Studies all’università di Reading in Gran Bretagna, studioso attento al rapporto fra lingua e potere e ai discorsi d’odio. Leggendo questo interessante libro, si scopre che l’associazione fra pelle nera e sporco è tutt’altro che recente. Faloppa conduce il lettore in un viaggio attraverso due millenni, per scoprire come è cambiata nel tempo la visione delle persone nere da parte degli europei e dell’Occidente più in generale.

Il viaggio inizia con Luciano di Samosata (120-180 d.C.), retore e filosofo originario dell’Asia minore, che in un dialogo satirico in greco dice che è inutile dare consigli a un bibliomane ignorante, che desidera i libri per possederli e non per leggerli. «Sto sprecando le mie parole e, come dice il proverbio, sto tentando di sfregare un etiope per farlo diventare bianco». Questa frase ci offre una serie di indizi. “Sbiancare un etiope” inteso come fare qualcosa di impossibile era una frase comune all’epoca. Gli etiopi, per i greci e anche per i romani, erano i popoli subsahariani di pelle scura: i termini “nero”, o “moro”, non erano ancora di uso corrente. Come spiega Faloppa, il razzismo non era di casa ad Atene o a Roma: ci si limitava a constatare le diverse caratteristiche somatiche dei neri, che andavano oltre il colore della pelle (includendo i capelli crespi, la forma del naso e delle labbra). Anche se i canoni della bellezza femminile fra le donne nobili romane prescrivevano una pelle nivea, quella scura non significava inferiorità.

Certo, l’uomo nero – sopravvissuto come icona nelle favole fino al Novecento – con la sua diversità poteva ispirare timore e in alcuni casi diventare simbolo di sfortuna. Ma è nell’era cristiana, come racconta Faloppa, che la situazione cambia. Per i Padri della Chiesa, il nero diventa il colore del diavolo e del peccato. Ma la porta della speranza è aperta: il nero è il peccatore che non ha ricevuto la luce divina, ma può essere evangelizzato. L’acqua del battesimo non fa cambiare colore alla pelle – questo è impossibile – ma purifica interiormente.

Dal Rinascimento in poi, l’immagine dell’etiope lavato entra nella pittura, soprattutto nord europea, e nella letteratura. Sbiancare il moro indica un’impresa destinata al fallimento, perché tenta inutilmente di superare i limiti posti dalla natura e stabiliti dalla società. L’era delle grandi scoperte geografiche affina le conoscenze degli europei, in particolare degli inglesi. Nella seconda metà del Cinquecento, sottolinea Faloppa, si inizia a distinguere i white moors (mori bianchi) del nord Africa dai black moors (mori neri), o negro, dell’Africa subsahariana. Avere un domestico moro diventa di gran moda a Londra, al punto che la regina Elisabetta si preoccupa per i troppi neri in circolazione nel suo regno. Nel Settecento le teorie razziste prendono forma, sostenute dal sistema economico schiavista che aveva la necessità di giustificare l’inferiorità dei neri per poterli sfruttare. Le unioni miste, però, sono una realtà sempre più diffusa e non manca chi mette in guardia contro la presenza dei mulatti, malvisti perché in alcuni contesti sono ammessi a godere degli stessi diritti dei bianchi.

Mentre incominciano a circolare i primi, inefficaci e spesso pericolosi rimedi per schiarire la pelle, l’Ottocento aggiunge un capitolo fondamentare alla narrazione dello “sbiancare l’etiope”. Questo è uno dei capitoli più sorprendenti del libro. L’industria del sapone muove i suoi passi dapprima in Europa, dove poco alla volta tutte le classi sociali sono spronate ad adottare un modello ideale di igiene e pulizia. «La sporcizia era vista come un male in sé, specchio di altri mali, tanto fisici quanto morali. Andava lasciata fuori casa, allontanata, negata», scrive Faloppa nel suo libro. Se la civiltà si misura sull’uso del sapone, i consumatori europei potevano sentirsi migliori dei “selvaggi” delle colonie. La pubblicità gioca sugli stereotipi razzisti del passato, e per magia l’impossibile diventa possibile. Neri insaponati da sorridenti casalinghe europee scoloriscono e diventano bianchi. Il fascismo negli anni Trenta ritrae dei piccoli abissini che grazie al sapone non cambiano colore della pelle, ma diventano piccoli balilla. La pulizia va ormai a braccetto con la missione civilizzatrice dell’impero coloniale.

Oggi “sbiancare l’etiope” è diventato un business da più di 50 miliardi di dollari. Sono soprattutto le donne africane (circa il 40% secondo l’Organizzazione mondiale della sanità con picchi del 77% in Nigeria) a spendere per acquistare creme sbiancanti, gel o altre sostanze di dubbia efficacia – spesso dannose per la salute – per avere la pelle più chiara. Il messaggio è chiaro: il razzismo gode ancora di buona salute e l’orgoglio nero è più una rivendicazione intellettuale che una coscienza diffusa. Assomigliare ai bianchi rimane ancora un’aspirazione, alla quale l’Occidente ha contribuito mortificando per secoli l’identità nera.