Il lungo inverno del Kashmir

Il lungo inverno del Kashmir

Dopo l’improvvisa revoca dell’autonomia, la regione indiana a maggioranza musulmana è sotto massima sorveglianza. E mentre soffiano venti di guerra, la gente soffre. Compresi i pochi cristiani

Un conflitto che dura da decenni in una regione di confine tra due potenze nucleari. Una situazione in cui un nazionalismo ammantato di motivazioni religiose rischia di fare  riesplodere tensioni che solo un duro controllo militare finora è riuscito a contenere. È l’aria che – a quattro mesi ormai dalla svolta imposta in estate da New Delhi – si continua a respirare in Kashmir, la regione ai piedi dell’Himalaya a maggioranza islamica contesa tra India e Pakistan fin dai tempi della Partition, la separazione post coloniale tra i due Paesi seguita all’indipendenza dagli inglesi.

La revoca dell’autonomia – sostituita con l’attribuzione della qualifica di Territorio federale sotto un più stretto controllo del governo centrale indiano – ha riaperto una ferita mai in realtà rimarginata in un’area ad alto potenziale di confronto armato. Con una decisione del Parlamento chiesta dalla maggioranza nazionalista e filo-induista, immediatamente avallata dal presidente della Repubblica e applicata dal governo guidato da Narendra Modi, il 5 agosto nell’area con maggioranza di popolazione islamica dello Stato di Jammu e Kashmir otto milioni di persone hanno perso da un giorno all’altro buona parte dei diritti che erano stati loro garantiti. E – oltre a questo – si sono trovati nuovamente sotto una legge d’emergenza che ha portato censura, coprifuoco, arresti arbitrari e sospensione di ogni dibattito politico.

Ogni reazione di dissenso verso una decisione che ha chiuso scuole, negozi e mercati, ha fermato trasporti pubblici e attività amministrative e ha di fatto messo in stand-by la vita della popolazione, è stata contrastata con pallottole di gomma, gas lacrimogeni e idranti, oltre che con un’ondata di fermi che ha riguardato almeno quattromila persone. Decine di migliaia di militari e paramilitari hanno preso possesso dei centri urbani, mentre trasporti ferroviari e aerei sono stati sottoposti per settimane a forti limitazioni.

Per evitare prevedibili contraccolpi nelle piazze l’informazione resta bloccata quasi completamente con qualunque mezzo, mentre il turismo ha subìto un crollo prossimo alla totalità, con gli stranieri prima espulsi e poi di fatto esclusi dal Kashmir. A complicare la situazione, dal neonato Territorio federale – che va verso la piena integrazione nello Stato indiano in contrasto anche con l’antica e sempre reiterata richiesta dell’Onu di un referendum per scegliere tra l’autodeterminazione o l’annessione all’India – è stata separata la regione nord-orientale del Ladakh, che include aree rivendicate dalla Cina.

Se a tutto questo si aggiunge un innalzamento delle tensioni con scaramucce e morti al confine con il Pakistan – che rivendica per sé l’intero Kashmir – non appare affatto esagerata l’immagine diffusa dai mass media indiani che parlano di una situazione simile a quella di un reattore nucleare sull’orlo dell’esplosione. Una similitudine non casuale, dato il rischio concreto di un conflitto nucleare se la situazione del Kashmir dovesse degenerare una volta sollevati legge d’emergenza e coprifuoco.

Davanti a una possibile repressione letale di massicce proteste popolari le autorità pachistane non potrebbero che ordinare un intervento armato, magari limitato, ma sempre con il rischio di una possibile estensione. E lo stesso Pakistan ammette che l’uso tattico dell’arma atomica potrebbe diventare un’opzione in caso di escalation militare.

Prima ancora della possibilità di un conflitto aperto, però, il pericolo è che la nuova situazione, imposta senza un accordo con le forze politiche locali e senza alcun coinvolgimento della popolazione, incentivi una ribellione, simile a quella della Kashmiri Intifada che dal 1987 al 2009 provocò almeno 40 mila morti, tra cui molti dei 7 mila caduti stimati finora tra le forze di sicurezza indiane chiamate a contrastare i gruppi militanti e l’ostilità della popolazione musulmana. Una situazione che peraltro ha incentivato l’intromissione nella già complessa situazione locale di gruppi terroristi, sostenuti o almeno tollerati dal Pakistan e – salvo frange talebane – ispirati dalle centrali del jihadismo internazionale. Con quale incidenza lo si capisce anche solo dal dato dei 222 militanti uccisi in Kashmir nel 2018 (secondo fonti indiane) che si inseriscono in una generale recrudescenza di scontri nella regione dal 2016, dopo alcuni anni di calma relativa.

Come sottolineato in un recente rapporto sul Kashmir del Minority Rights Group, «il problema principale e punto di partenza di tutte le emergenze del territorio sta nelle difficoltà vere o percepite della popolazione musulmana».

Dall’indipendenza il Kash­mir ha conservato «una sostanziale arretratezza – continua il rapporto -, nonostante l’abbondanza di risorse naturali e paesaggi pittoreschi che garantirebbero un ampio potenziale turistico. La mancanza di sviluppo economico ha alimentato il risentimento contro lo Stato indiano e ha condotto a una crescente percezione di discriminazione della maggioranza musulmana. Tra le ragioni che hanno accresciuto l’ostilità nel tempo c’è l’esclusione dell’urdu (la lingua della tradizione islamica dell’India) dalle lingue ufficiali, uno dei livelli più bassi di spese per l’istruzione di tutto il Paese, investimenti industriali praticamente inesistenti. Tutto questo mentre il turismo è diventato vittima del terrorismo e della militarizzazione». Con la crescita della militanza estremista di matrice islamica dalla fine degli anni Ottanta, la maggioranza degli indù è migrata verso la regione di Jammu e altrove in India, mentre sikh e cristiani hanno deciso di continuare a vivere fianco a fianco con i musulmani nel Kashmir propriamente detto.

La presenza cristiana, in particolare, è assai ridotta: secondo il censimento più recente circa 35 mila persone su una popolazione complessiva di 12,5 milioni di abitanti. Ma, ancor più, quella cristiana è una presenza poco visibile perché timorosa di pressioni e ritorsioni che in passato hanno portato a episodi persecutori e anche vittime. Resta però l’impegno educativo delle istituzioni cristiane, mai disconosciuto, e sul quale si concentra anche la Chiesa cattolica, presente con la diocesi di Jammu-Srinagar guidata dal 2015 dal giovane vescovo Ivan Pereira.

Nata anch’essa dalle ferite della “Partizione” tra India e Pakistan del 1947, erede dell’annuncio portato in questa regione dai missionari di Mill Hill e dai frati cappuccini del Belgio, da anni ormai la diocesi vede la presenza di un clero locale indiano.

Nell’area specifica del Kashmir ufficialmente risultano solo 650 battezzati (anche se secondo altre fonti il numero effettivo arriverebbe ad almeno 2.500-3.000 persone) e la situazione è peggiorata dopo l’11 settembre 2001 come conseguenza della radicalizzazione della militanza musulmana. Oggi però anche negli altri distretti la comunità deve fare i conti pure con la recrudescenza dell’estremismo indù che, godendo di forti appoggi politici, ha lanciato campagne contro la conversione a religioni diverse da quella induista e alla riconversione dalle fedi minoritarie.

Diventa quindi particolarmente significativa l’esperienza della parrocchia dedicata alla Sacra Famiglia, l’unica chiesa cattolica di Srinagar e una delle due aperte in tutta la Valle del Kashmir. Una comunità frequentata anche da fedeli di altre religioni come luogo di preghiera e di pace. È stato lo stesso padre Roy Mathew, il parroco, a raccontare qualche tempo fa ad AsiaNews la vita della comunità locale dove persistono «povertà, disoccupazione, scuole che operano a singhiozzo, impossibilità di studiare, traumi psicologici, persone accecate dai proiettili sparati da fucili ad aria compressa. I bambini sono quelli che soffrono di più». «L’incertez­za domina la vita quotidiana ed è difficile programmare anche solo l’oggi – segnalava già primi dei fatti di quest’estate il parroco -. Le violenze affliggono anche i cattolici ma i servizi della parrocchia sono sempre attivi e tentiamo di mantenere una certa continuità».

In mezzo a questa situazione, spiegava padre Roy, «la Chiesa fa quello che può, sostenendo incontri di dialogo tra i gruppi. Organiz­ziamo iniziative nei “club per la pace” nelle scuole: in questo modo proviamo a gettare semi di coesistenza nelle menti più ricettive dei giovani. Un’azione simile a quella che promuoviamo nelle scuole al confine tra India e Pakistan». Un’attività pastorale e di promozione della pace rischiosa in una situazione esplosiva come quella di Srinagar perché, avverte il sacerdote «in diversi settori della popolazione è in crescita la radicalizzazione». Occorrono apertura, ma anche attenzione verso i battezzati sotto assedio.

Sono appena quattro i cattolici della parrocchia «che possiedono una casa di proprietà, tutti gli altri vivono in affitto in abitazioni di proprietà di musulmani» poco inclini a tollerare «che sacerdoti e suore visitino le famiglie vestiti con l’abito talare».

Un isolamento che richiede dunque coraggio per vivere nel quotidiano e ancor più per cercare il cambiamento in questa difficile situazione. Tra i pochi leader cristiani a intervenire pubblicamente sulle ultime tensioni in Kashmir è stato, nei giorni immediatamente successivi all’annuncio governativo sulla regione, il pastore protestante Joseph D’Souza, primate della Good Shepherd Church of India. Un messaggio, il suo, che suona come un appello: «L’ultima cosa di cui la regione ha bisogno è un’altra guerra, soprattutto dato che entrambe le nazioni possiedono armi nucleari. Tuttavia, lo status quo in Kashmir è insostenibile da molto tempo e forse per qualche azione della Divina Provvidenza questa situazione potrebbe tradursi in una soluzione se il governo e il popolo indiano dovessero accogliere gli abitanti del Kashmir come concittadini. Ad ogni modo, questo richiederebbe un miracolo divino, del tutto improbabile se il popolo di Dio non prega».

«Occorre pregare – spiega ancora il pastore D’Souza – per i cristiani, gli indù, i musulmani e tutti coloro la cui libertà religiosa si trova coinvolta in conflitti di natura politica. In sostanza, i cristiani devono pregare che nessuno si prenda la licenza di odio sotto qualsiasi forma, riconoscendo sempre l’intrinseca dignità di ogni essere umano e la sua libertà di coscienza data da Dio».