Buddha e Gesù nell’ostello tribale

Buddha e Gesù nell’ostello tribale

In una remota regione del Bangladesh meridionale un progetto sostenuto da padre Franco Cagnasso offre un’istruzione ai ragazzi della minoranza marma, vittima di discriminazioni e abusi

Tra i monti verdissimi di Bandarban, quando le nu­vo­­le basse si diradano, spiccano le cupole dorate delle pagode che paiono toccare il cielo. In questa remota regione del Bangladesh meridionale al confine con il Myanmar – quel confine attraversato negli ultimi anni da centinaia di migliaia di rohingya in fuga – la vita dei tribali aborigeni, tradizionalmente lasciati ai margini dalla maggioranza bengalese, è quanto mai dura, caratterizzata da soprusi, sottrazione di terre, povertà estrema, intolleranza su base etnica e religiosa. Per questo è ancora più sorprendente trovare, nel distretto collinare del Chittagong Hill Tracts, un ostello creato appositamente per ospitare e dare un’istruzione a ragazzi e ragazze della piccola minoranza marma, buddhisti, che però nella loro sala della preghiera hanno sistemato anche un crocifisso e una statua della Madonna, davanti a cui lasciano di tanto in tanto frutti, incenso, dolci.

Sorride nel raccontarlo padre Franco Cagnasso, missionario del Pime in Bangladesh, che a quest’ostello ha creduto fin dagli inizi, ormai sedici anni fa, accompagnandone poi la crescita, a tratti travagliata, fino ad oggi.

Padre Franco, nato a Susa (Torino) nel 1943 e attualmente rettore della casa del Pime di Dhaka, è un veterano del “Paese del Bengala”, dove approdò nel 1978. Eletto però vicario generale dell’Istituto nel 1983 e poi per dodici anni alla guida dello stesso (dall’89 al 2001), dovette lasciare la sua missione fino al 2002.

«Quando tornai, assunsi l’incarico di direttore spirituale e insegnante al Seminario teologico di Dhaka», racconta. «Non avendo ricevuto responsabilità che comportassero impegni economici, come la direzione di una scuola o una parrocchia, decisi che avrei dirottato gli aiuti provenienti dalla rete di amici e sostenitori su iniziative locali che avrei giudicato valide». Le occasioni non tardarono e ne nacquero alcune esperienze bellissime e durature, come la relazione con Dino e Rotna, una coppia di mae­stri locali fautori di una scuola per bambine poverissime in una baraccopoli di Dhaka. «Ma tra le iniziative andate a buon fine, a cui si è aggiunto anche qualche inevitabile insuccesso quando il referente di turno non si è rivelato purtroppo affidabile, quella che mi è più cara – confida il missionario – riguarda proprio, in un Paese a stragrande maggioranza islamica, la collaborazione con i marma, buddhisti!».

Come è nato quest’inedito rapporto? «Un giorno – era il 2003 – mi trovavo nel giardino del Seminario e mi accorsi di un giovane che si guardava attorno smarrito. Lo accostai e gli chiesi: “Chi cerchi?”. E lui: “Qualcuno che mi ascolti”. Si chiamava Mong Yeo Marma, era laureato in letteratura inglese e lavorava in città. Mi disse di aver da poco ricevuto la visita di un ex compagno di college, monaco buddhista e marma come lui, bonzo in un piccolo monastero di un remoto villaggio del Sud, Betchara, che gli aveva raccontato la sua opera a favore di un gruppo di bambini poveri a cui stava permettendo di frequentare la scuola ospitandoli presso di sé, oltre il fiume che tagliava fuori le loro case da qualunque contatto con contesti più avanzati. Il monaco, però, aveva estremo bisogno di aiuto, tanto che Mong Yeo aveva deciso di lasciare il lavoro per andare ad aiutarlo. Quel giorno, passando nei pressi del Seminario, il giovane aveva notato la targa sul cancello e, conoscendo un poco l’opera dei missionari visto che aveva studiato in una scuola cattolica, era entrato d’istinto per cercare supporto». Padre Cagnasso non negò un piccolo contributo: «Gli diedi quattro soldi per le zanzariere per una trentina di bambini, e lui se ne andò contento, convinto che Dio avesse voluto quel nostro incontro».

Per caso o per Provvidenza, in effetti venne fuori che uno studente del Pime era originario proprio di un villaggio non lontano da quello dove operava il bonzo. «Gli diedi l’incarico, durante le vacanze, di verificare il racconto dello sconosciuto: lui lo fece e mi confermò che l’iniziativa era seria. Cominciai così a sostenerla con più decisione».

Quel Natale, padre Franco ricevette la visita dei suoi parenti dall’Italia. «Ci trovavamo nella casa del Pime di Dhaka – ricorda -, quando arrivò senza preavviso Mong Yeo a farci visita, portando un sacco di regali: prodotti tipici, yoghurt, tamarindo… Conobbe mia sorella e mio cognato e, da quell’incontro, nacque una collaborazione tra la parrocchia di S. Lucia a Bergamo, dove vivono questi miei familiari, e il progetto a sostegno dei ragazzi marma».

Negli anni seguenti l’intervento si sviluppò: furono costruite casette per ospitare i bambini e sembrava che tutto andasse bene. Finché la situazione, nella zona, si infiammò: un gruppo di ribelli in contrasto con il governo del Myanmar attraversò il confine e si stanziò nella regione. La gente si trovò in mezzo al fuoco incrociato di esercito bengalese e gruppi di miliziani, entrambi dediti a taglieggiare gli abitanti, i quali alla fine in gran parte abbandonarono case e proprietà e fuggirono. Il bonzo di Betchara fu trasferito, i maestri scapparono: tutto sembrava finito.
«Ma proprio allora, in un altro villaggio vicino a Bandarban, un contadino analfabeta offrì in dono alla pagoda locale un terreno con la condizione che venisse usato per istruire i ragazzi marma. Il bonzo contattò Mong Yeo e gli propose di avviare lì un nuovo progetto». Nacque così, con l’aiuto dei benefattori che accettarono di rimettersi in gioco, l’ostello Hill Child Home, gestito da un comitato che riuniva abitanti del villaggio, monaci buddhisti e alcuni maestri, i quali selezionavano i bambini da accogliere – gratuitamente – tra i più poveri, quelli senza famiglia o provenienti dai villaggi più isolati.

«All’inizio avevano davvero pochi mezzi, dovevano andare a prendere l’acqua lontano», racconta il missionario del Pime. «Poi, piano piano, è stato costruito un piccolo centro con un pozzo e una scuola. Il progetto si allargava rapidamente. Io, che stavo a Dhaka, indicavo a Mong Yeo il numero massimo di ragazzi da accogliere, ma lui continuava a superarlo per non mandare via i più poveri».

In effetti, quando padre Franco riusciva a raggiungere Bandarban – undici ore di viaggio dalla capitale, con tanto di autorizzazione per poter entrare nella regione dei tribali – la situazione si mostrava nella sua drammaticità.

«La zona era e resta militarizzata nonostante il trattato di pace che pose fine alla guerriglia oltre vent’anni fa, e questa condizione favorisce gli abusi nei confronti dei tribali, che vengono sistematicamente espropriati delle loro terre. Gli stessi militari incentivano i propri parenti ad andare al Sud per occupare le proprietà degli aborigeni, di religione buddhista, cristiana o animista. Spesso si parte da una rissa provocata ad arte fra donne bengalesi e tribali, per fare intervenire gli uomini che bruciano case, picchiano e arrivano a uccidere. La polizia interviene  a cose fatte e afferma che solo il giudice stabilirà chi ha ragione; così i bengalesi restano sul terreno occupato e i tribali non osano tornare».

All’interno della Hill Child Home, dove oggi studiano più di 150 studenti, dalla prima classe alla decima (corrispondente alla quinta ginnasio), il clima che si respira è completamente diverso.

I ragazzi, alcuni dei quali attualmente sono anche mrong, chakma o di altre minoranze della zona, convivono in serenità, e tutti hanno imparato a conoscere i cristiani: in che cosa credono, quali valori hanno, persino come pregano.

Racconta padre Cagnasso: «Quando da Dhaka andiamo a visitare i ragazzi dell’ostello, noi cristiani assistiamo alla loro preghiera buddhista, poi io celebro la Messa e chi vuole si ferma ad assistere. Anche alcuni bonzi partecipano. Capita che, dopo la celebrazione, qualche monaco chieda di parlare del Vangelo ascoltato. I bambini, poi, ci hanno chiesto i libretti dei canti cristiani e li hanno imparati, mentre amano portare candeline, incenso, fiori e frutta davanti alla statua della Madonna, come fanno con quella del Buddha».

Non c’è timore che vogliate convertire i ragazzi? «Qualcuno, dal­l’esterno, lo teme, ma chi ci conosce ha capito bene che non siamo certo lì per “vendere” la nostra religione. Capita, poi, che qualcuno voglia avvicinarsi davvero al cristianesimo: in questi casi è molto importante il discernimento, fare capire che la conversione non è la scelta di imitare una persona che si stima, una specie di “guru”, ma l’ingresso in una comunità».

Nel frattempo, continua questo cammino di amicizia e solidarietà. Recentemente, sul terreno dell’ostello sono state messe a dimora migliaia di piante da frutta: manghi, litchi, betel, che si sono aggiunti agli alberi di gomma piantati in precedenza e che dovrebbero rendere la struttura autosufficiente. Fuori, tuttavia, l’arrivo dei profughi rohingya cac­ciati dal Myanmar minaccia seriamente di aggravare la situazione per i tribali. Il loro timore è che, alla fine, i nuovi venuti occuperanno le loro terre, tollerati dai bengalesi in quanto più vicini a sé dal punto di vista culturale e religioso rispetto a buddhisti e cri­stiani. Due piccole minoranze che cercano di resistere, e che – come dimostra la storia della Hill Child Home – ci riescono meglio quando si sostengono a vicenda.