Il premier Turnbull: tra aborigeni e australiani uno «scarto inaccettabile»

Il premier Turnbull: tra aborigeni e australiani uno «scarto inaccettabile»

L’ultimo rapporto sulle differenze tra aborigeni e australiani fotografa una situazione di grandi diseguaglianze. Il premier Turnbull ha parlato di «scarto inaccettabile», ma il problema d’integrazione tra le comunità è vecchio quanto la colonizzazione inglese.

 

Uno «scarto inaccettabile» che l’Australia non riesce a colmare. Il primo ministro Malcom Turnbull lo scorso 10 febbraio ha definito così davanti al Parlamento di Canberra la differenza tra la speranza di vita degli aborigeni e quella degli altri australiani.

 

I dati parlano di uno scarto dell’ordine di 10 anni per ridurre il quale il governo – ha ammesso Turnbull – «non è sulla buona strada». Tra il 2010 e il 2012 infatti la speranza di vita degli australiani era di 79,7 anni per gli uomini e 83,1 per le donne contro i 69,1 e i 73,7 anni di media per gli aborigeni: numeri che segnalano una riduzione irrisoria (tra lo 0,1 e 0,8) rispetto ai risultati del biennio 2005-2007.

 

I dati sono rilevabili dal rapporto annuale «Closing the gap», un progetto lanciato dal governo nel 2008 (i cui risultati sono disponibili però dall’anno successivo) per misurare le diseguaglianze sociali tra indigeni e bianchi e tentare di porvi rimedio. Perché, nonostante siano presenti sul continente da circa 40mila anni, su totale di 23 milioni di abitanti, gli aborigeni sono una minoranza che conta solo 670mila persone che vivono condizioni svantaggiate.

Basti pensare al numero elevatissimo di detenuti (la popolazione indigena conta solo il 3% della popolazione nazionale, ma il 27% dei carcerati sono aborigeni) disoccupati e malati gravi, ma anche all’emarginazione di cui gli indigeni rimangono vittime come testimonia il numero di suicidi quasi il doppio rispetto agli australiani ).

 

Facendo riferimento all’ultima edizione della statistica, Turnbull ha sottolineato un certo progresso avvenuto per quanto riguarda la mortalità infantile, la lotta contro l’analfabetismo e la scolarizzazione che resta però un problema per le aree più isolate dove i libri sono ancora introvabili.

Da parte sua, il primo ministro attribuisce all’abuso di alcol e droga alcuni dei problemi sociali delle comunità indigene ma non nasconde le responsabilità che l’etnia bianca ha avuto nell’emarginazione degli aborigeni. «Per decenni, il colore della pelle sono stati usati per controllare le vite delle persone indigene e diminuire il loro valore nella società. Non può più succedere» ha detto Turnbull, annunciando 20 milioni di fondi extra per l’Institute of Aboriginal and Torres Strait Islander Studies per la raccolta di documenti della cultura aborigena.

 

Ma nonostante il pubblico mea culpa del premier australiano che fa pochi sconti al governo del Paese, gli aborigeni non si dicono soddisfatti: «Conosciamo questo discorso» ha replicato il commissario alla giustizia sociale per gli aborigeni di Détroit di Torre, Mick Gooda «e non possiamo che essere cinici di fronte a queste parole, finché non saranno tradotte in fatti».

 

In effetti il tema dell’integrazione è al centro del dibattito da parecchi anni e non ha ancora trovato una soluzione definitiva. La maggior parte degli aborigeni – che vive lontano dalle grandi città e dai centri economici senza servizi essenziali come energia elettrica, gas, acqua, trasporti, sanità e istruzione – sopravvive solo grazie agli aiuti governativi. Gli aborigeni sostengono di avere diritto di proprietà sui territori che occupano e accusano il governo di non essere disposto a migliorare le loro condizioni di vita là dove abitano. Lo scorso marzo migliaia di aborigeni avevano organizzato manifestazioni di protesta con l’ex primo ministro conservatore Tony Abbott che, nonostante al momento della sua elezione nel 2013 avesse deciso di collocare per una settimana il suo ufficio in una comunità aborigena, aveva annunciato la chiusura di più di cento villaggi indigeni nella parte occidentale del Paese a causa del loro costo per i contribuenti australiani.

 

Ma la storia della discriminazione affonda le sue radici nella prima colonizzazione dell’Australia, avvenuta con lo sbarco degli inglesi nella Baia di Sydney il 26 gennaio 1788. Oggi questa data è per gli abitanti dell’isola-continente l’Australia Day, un giorno di festa nazionale, mentre gli aborigeni considerano il 26 gennaio il giorno dell’invasione e lo usano per di commemorare le espropriazioni e i soprusi subiti dai loro antenati. Negli anni Trenta e poi negli anni Sessanta il governo australiano ha praticato la politica di assimilazione biologica, per colpa della quale centinaia di bambini sono stati prelevati dalle loro famiglie ed educati secondo i valori occidentali. Negli anni Settanta, dopo il rifiuto del premier William McMahon di concedere il possesso delle terre occupate dagli aborigeni, le proteste si sono infiammate e hanno portato a qualche risultato: nel 1976 Sir Douglas Nicholls è stato il primo aborigeno a diventare governatore dell’Australia del Sud e nessuno della sua comunità aveva ottenuto un incarico così importante. Nel 1999 sono stati riconosciuti dal Parlamento federale i maltrattamenti a danno degli indigeni e nel 2000 un tentativo di riconciliazione è stato fatto anche dalla federazione sportiva nazionale che ha assegnato all’atleta aborigena Cathy Freeman di accendere la fiacca olimpica alle Olimpiadi di Sydney.

 

Oggi i capi aborigeni chiedono agevolazioni e finanziamenti in materia di sanità, addossando all’instabilità politica – che ha portato al governo cinque premier diversi in soli cinque anni– la colpa dell’impossibilità di compiere sforzi a lungo termine contro la discriminazione. «Non è l’instabilità all’interno delle comunità indigene, ma quella di questa Camera che bisogna affrontare per avere delle politiche e dei finanziamenti veramente coerenti» ha dichiarato il copresidente dell’Ong Reconcilation Australia, Tom Calma, in una conferenza stampa.

 

Intanto, sia Turnbull sia il leader dell’opposizione laburista Bill Shorten hanno confermato il loro impegno nel promuovere un referendum nazionale sul riconoscimento degli aborigeni e dei Torres Strait Islanders nella costituzione del 1901 dalla quale sono sempre rimasti esclusi. Secondo Shorten questo deve «essere un gesto reale, una cambiamento sostanziale. Deve eliminare il razzismo ed essere una dichiarazione d’intenti nazionale».