Braccio di ferro

Braccio di ferro

Ci sono voluti dieci anni. E non è ancora finita. Ma una piccola vittoria è stata ottenuta contro i giganti dell’estrazione del ferro. È quella degli abitanti di Piquiá e, con loro, di un missionario…

Qualcuno la paragona alla storia di Davide e Golia. A noi piace pensarla più come il lungo cammino dell’Esodo: una sfida enorme per fare il primo passo di liberazione; la fedeltà necessaria per non tradire il sogno iniziale; la Terra Promessa che comincia a farsi vedere. È la storia di Piquiá de Baixo: una piccola comunità della periferia amazzonica, nella regione del Carajás, in Brasile, che ha finalmente vinto la sua battaglia contro un gigante dell’estrazione mineraria.

Una storia che comincia da lontano, con il Programa Grande Carajás. Si tratta di uno dei programmi brasiliani più ambiziosi che, fin dagli anni Sessanta, prometteva lo “sviluppo” del Nord del Brasile. Nel cuore della foresta amazzonica, nello Stato del Pará, era stata scoperta la miniera di ferro più ricca al mondo. L’impresa mineraria brasiliana Vale S.A. – ai tempi pubblica ed oggi quasi totalmente privatizzata – ha subito posato i suoi artigli su di essa. Oggi Vale è tra le tre maggiori multinazionali del mondo. Ma dello sviluppo promesso per la regione di Carajás non si vede traccia. La “maledizione dell’abbondanza” si è posata anche su questi territori, violati dalle miniere, dalle imprese siderurgiche e da un lunghissimo corridoio ferroviario che attraversa 900 chilometri di Brasile, per trasportare il minerale di ferro fino al porto di São Luís, in Maranhão, da dove raggiunge la Cina, il Giappone, il Nord Europa ed anche la riviera pugliese, per alimentare i forni inquinanti dell’Ilva di Taranto.

La storia di Piquiá de Baixo, invece, comincia dal basso: una lezione di vita e di strategia missionaria, per noi che da fuori cercavamo di appoggiare la gente.

Piquiá de Baixo è un quartiere di Açailândia, piccola città alla periferia del Maranhão, uno degli Stati più poveri del Brasile. Nel contesto abbagliante delle promesse del Programa Grande Carajás, Açailândia avrebbe dovuto brillare di luce propria: inaugurata la ferrovia per l’esportazione mineraria nell’85, avrebbero subito iniziato a funzionare cinque grandi imprese siderurgiche nel distretto industriale di Piquiá. E così fu: a partire dall’88, 14 altiforni hanno iniziato a sputare fumo e polvere su case, scuola e abitanti.

Tutto fa gola: oltre alle risorse minerarie, servivano acqua abbondante per il raffreddamento dei forni e legna da bruciare per ottenere carbone per il processo di fusione del ferro. A Piquiá c’era tutto. Ma c’erano anche persone, che forse a modo loro avrebbero trovato un altro equilibrio di convivenza con l’ambiente e la natura circostanti.

E’ un conflitto tipico, ripetuto con la stessa grammatica neocoloniale nei più diversi angoli dell’America Latina: le casse dello Stato e le azioni delle grandi corporation si mantengono gonfie se si sfruttano fino in fondo le risorse naturali di cui i Paesi sono ricchi. Si parla di rimettere le materie prime al centro dell’economia, di modello estrattivista. In pratica, un saccheggio dei beni comuni che svuota le principali risorse del territorio: acqua, terra e foresta.

Che cosa resterà alle future generazioni non è affare della politica attuale e tanto meno delle multinazionali di turno, che migrano alla ricerca di condizioni sempre più convenienti per un guadagno facile.

Papa Francesco ci avverte, nell’enciclica Laudato Si’: «Nelle condizioni attuali della società mondiale, dove si riscontrano tante iniquità e sono sempre più numerose le persone che vengono scartate, private dei diritti umani fondamentali, il principio del bene comune si trasforma immediatamente, come logica e ineludibile conseguenza, in un appello alla solidarietà e in una opzione preferenziale per i più poveri. Questa opzione richiede di trarre le conseguenze della destinazione comune dei beni della terra» (LS 158).

Il signor Edvard Cardeal non legge le encicliche, non è abituato a testi così lunghi, ma ha tradotto nella sua vita quella che il Papa definisce «l’immensa dignità dei poveri». Presidente dell’Associazione comunitaria degli abitanti di Piquiá, soffriva come tutti per il morso quotidiano dell’inquinamento, a cui si aggiungeva l’amarezza dell’umiliazione: persona semplice, apparentemente senza possibilità per far fronte ai grandi progetti installatisi nelle terre della comunità, s’è sentito deriso dal padrone di una delle fabbriche, con cui aveva tentato di iniziare un dialogo. Sentendosi solo e senza vie d’uscita, ecco l’ispirazione: «Scriverò al presidente della Repubblica!». Che, a quel tempo, era ancora Lula Inácio da Silva. «Lui, che è stato operaio, saprà comprendermi».

Senza saperlo, anticipava quella che poi sarebbe stata la strategia vincente di Piquiá, capace di diventare un caso di rilevanza nazionale e internazionale. Quando la Segreteria della Presidenza gli ha risposto, Edvard ha compreso che il grido degli esclusi, anche se per molto tempo soffocato, non si spegne finché non apre un varco, una possibilità di riscatto.

È a questo punto che siamo entrati in gioco anche noi missionari. Abbiamo incrociato la storia di Edvard per circostanze guidate dallo Spirito di Dio. Conoscevamo la situazione di Piquiá, ma non avremmo mai immaginato di poter creare insieme un percorso durato più di dieci anni di denunce, rivendicazioni e proposte. La fedeltà ai poveri non è questione di eroismo: è un obbligo inevitabile quando ci si trova in mezzo a loro. E ogni giorno con loro si deve trovare una via d’uscita per aggiungere una piccola nuova tappa al cammino della giustizia.

La prima cosa che abbiamo fatto è stato ascoltare la gente. Che cosa volevano davvero? Lottare contro le imprese siderurgiche? Sì, ma spostarle era impossibile: la sproporzione di forze era enorme. Denunciare le loro violazioni? Sì, ma i processi sono ancora in corso e gli indennizzi non restituiscono la vita alla gente.

La comunità ha cominciato a organizzarsi su questi fronti, ma ne ha privilegiati altri due: ridurre le emissioni inquinanti e ottenere dallo Stato e dalle imprese il diritto a un trasferimento collettivo in un nuovo quartiere, lontano dai fumi e dalle polveri, grande abbastanza per accogliere tutti e costruito sulle basi di un progetto comunitario.

Lo slogan della resistenza popolare, da quei giorni in poi, è diventato: “Piquiá, reassentamento já!”, ovvero “trasferimento subito!”. La comunità ha dovuto mettersi in gioco fino al midollo: manifestazioni pubbliche, proteste, blocco della strada e dell’entrata delle fabbriche, sit-in di fronte alla casa del sindaco, al municipio o al tribunale, articoli di denuncia, gemellaggi con altre comunità ferite dall’inquinamento…

Un’alleanza importante è stata quella con Tamburi, il quartiere di Taranto vittima dell’Ilva. Oltre agli impatti assolutamente simili, il “legame di ferro” tra le due comunità viene dal fatto che i minerali che alimentano l’Ilva vengono proprio dalle miniere di Carajás.

Di Piquiá si comincia a parlare un po’ ovunque: circoli ambientalisti, movimenti sociali, settori socialmente impegnati della Chiesa… I vescovi dello Stato del Maranhão, in particolare, hanno organizzato nel 2011 una grande celebrazione di denuncia e di solidarietà, chiamata Romaria da Terra e da Água. Durante un’intera notte di veglia ed una lunga processione, diecimila persone hanno testimoniato il legame indissolubile tra il Vangelo e la cura della “Casa comune”.

La voce dei piccoli cominciava a ingigantirsi e ha raggiunto anche le istituzioni internazionali di difesa dei diritti umani. Lo stesso Edvard è riuscito a ottenere un’udienza presso la Commissione interamericana dei diritti umani, a Washington. Accompagnato da Danilo Chammas, avvocato dell’Associazione e difensore dei diritti umani, ha portato la sua testimonianza circa la responsabilità dello Stato brasiliano in questa vicenda e l’estrema lentezza nel volerla effettivamente risolvere. Lo stesso è avvenuto grazie ai procedimenti speciali dell’Alto Commissariato Onu per i diritti umani. Piquiá è un nome che comincia a essere pronunciato anche a Ginevra e le Nazioni Unite, per due volte, hanno scritto una lettera ufficiale al governo del Brasile, chiedendo chiarimenti e suggerendo immediate azioni di riduzione e riparazione dei danni.

In parallelo, anche la responsabilità delle imprese veniva progressivamente evidenziata. Nel 2012, Vale S.A. è stata dichiarata dal Public Eye Award la «peggior impresa al mondo». Nel 2015, veniva emessa la sentenza d’appello del Tribunale del Maranhão, che indicava la responsabilità dell’impresa siderurgica e dava ragione alle famiglie. Un po’ alla volta, i nodi hanno cominciato a venire al pettine.

Tuttavia, il processo di costruzione del nuovo quartiere non è ancora iniziato, a causa delle lentezze burocratiche e del cambio improvviso di governo. Se tutto va bene, occorreranno ancora due anni e mezzo. E così ancora oggi la comunità deve restare vigile, come nel primo giorno di questo lungo Esodo che la sta portando finalmente verso la libertà.

Una cosa è certa: in questo viaggio si è rafforzata la nostra fede in Dio e nella gente, nella capacità di organizzazione dei piccoli, nel ruolo decisivo che anche la Chiesa può avere quando si mette dalla parte degli esclusi. E anche se la “Terra Promessa” non la raggiungeremo mai – perché le dimensioni di questa ingiustizia sono enormi e a ogni piccola vittoria si associano rinnovate violazioni e violenze – il cammino stesso che abbiamo percorso e stiamo percorrendo ci purifica e ci rende più umani, persone di solidarietà e di speranza.