Il Paese del sorriso svanito

Il Paese del sorriso svanito

Per molto tempo tra le nazioni più dinamiche dell’Asia emergente, oggi la Thailandia, al centro della Campagna Pime 2022, affronta una crisi che va ben oltre l’impatto del Covid, tra diritti violati e ruolo dei militari

Tra i Paesi più dinamici dell’Asia emergente, seconda economia del Sud-Est asiatico, meta di un flusso turistico con pochi rivali al mondo, la Thailandia, in cui il Pime celebra quest’anno il cinquantesimo anniversario di presenza, è da tempo alle prese con una crisi che va erodendone, insieme al relativo benessere – sebbene distribuito in modo molto diseguale – anche l’immagine serena e accogliente che l’aveva resa nota come “Paese del sorriso”.

Il sor­­riso, nel Paese a cui è dedicata la Campagna Pime 2022 “Sale della terra”, resta ma si è fatto più teso, meno spontaneo e per molti meno frequente, mentre i rapporti con il mondo sono diventati più problematici, portando allo scoperto carenze e ambiguità che si riflettono anche nella relazione con le decine di milioni di visitatori rivendicati dalle autorità. E, soprattutto, con i milioni di immigrati e le centinaia di migliaia di espatriati che, per lo meno fino all’era Covid, ne avevano fatto una nuova residenza o un luogo di lavoro ma che ne subivano anche le contraddizioni: i tratti discriminatori, le difficoltà linguistiche, il persistente nazionalismo e le barriere poste da una concezione paternalistica e per molti aspetti feudale della società, che nel tempo ha radicalizzato nepotismo, corruzione e privilegi per nome, ricchezza e conoscenze piuttosto che per merito o diritto.

Tu­rismo e investimenti – inizialmente mono e poi bidirezionali – sono stati per decenni il collegamento primario del Paese con il resto del mondo, ma è mancata nelle élite la volontà di rendere la Thailandia parte della comunità internazionale a pieno titolo. Anzitutto per una ragione identitaria alimentata dalla continua e assillante proposta di una realtà unica e inimitabile di cui nazione, monarchia e buddhismo sono gli elementi essenziali, ma anche per un atteggiamento opportunista che ha cercato spesso di barattare il mancato rispetto o l’adesione parziale a trattati, accordi, democrazia e diritti umani con apertura a investimenti e imprese dall’estero. 

Oggi questo “gioco” è in buona parte scoperto e la Thailandia si trova a dover affrontare la pressione internazionale su vari fronti: immigrazione, diritti dei lavoratori, rispetto dei diritti umani e civili, parità tra i sessi, diritto d’autore, tutela dell’ambiente, pari garanzie per iniziative e cittadini stranieri sul proprio territorio e per quelli thailandesi all’estero. 

Con una sottolineatura: una quota consistente delle difficoltà, delle discriminazioni, degli abusi di cui soffre una parte dei 70 milioni di thailandesi è frutto di politiche persistenti, a partire dalla mancata tutela di donne e minori implicati in vari ambiti di sfruttamento. Come l’“industria dell’intrattenimento” gestita in buona parte da individui e gruppi con connessioni e connivenze note e verso i quali nessun governo ha potuto o voluto intervenire. 

La presunta adesione a principi tradizionali che da una parte impedisce il riconoscimento legale della diversità sessuale o rifiuta la depenalizzazione di prostituzione e pornografia (che la popolazione vedrebbe, secondo alcuni sondaggi, come “inaccettabili” ma che sono diffuse) non porta tuttavia a sanzionare lo sfruttamento sessuale, che viene perlopiù tollerato socialmente e gestito da persone e gruppi in contrasto spesso con il loro ruolo istituzionale. 

Ne consegue che chi evidenzia questo fenomeno, così come chi denuncia il trattamento della manodopera immigrata e dei rifugiati o la diffusione del gioco d’azzardo, o chi critica il ruolo della monarchia e mette in dubbio la legalità di apparati dello Stato, diventa “colpevole” di infangare il buon nome del Paese ed è sottoposto ad azioni giudiziarie per diffamazione, eversione, violazione della legge sulla lesa maestà. Consolidando così una catena di censura o autocensura difficile da spezzare.

Queste situazioni e la mancanza di reale potere della società civile, se non per alcuni ambiti a partire da quello caritativo, molto attivo e spesso connesso con le istituzioni buddhiste ma che vede partecipe anche la Chiesa cattolica attraverso la Caritas, rendono incompleto lo sviluppo democratico del Paese e ancor più impediscono alla società nel complesso di evolvere. 

La sclerosi sociale e culturale, alimentata insistentemente anche a livello scolastico insieme al radicato senso di “unicità”, rende difficile oggi alla Thailandia crescere e competere, ed evidenzia come una parte non indifferente del suo sviluppo passato sia stata frutto di un’ampia disponibilità di manodopera con poche alternative e poche rivendicazioni, come pure delle necessità dei gruppi di potere che hanno accolto i partner stranieri di volta in volta più opportuni per i loro interessi.

Quanto infatti oggi si proietta sul piano internazionale è soprattutto il potere economico di pochi oligopoli su base familiare che cercano altrove possibilità di investimento, ma anche una crescente apertura verso gli interessi cinesi che non chiedono una contropartita sul piano degli ideali e dei diritti. Al contrario di quanto fanno diplomazie e organizzazioni internazionali critiche verso il ruolo egemonico dei militari: una costante dagli anni Trenta del XX secolo, ma che si è rafforzata con il colpo di Stato del 22 maggio 2014. 

La richiesta di espulsione di Amnesty International, avanzata a novembre da gruppi nazionalisti filomonarchici, è solo l’ultima di una serie di iniziative ostili contro chi mette in discussione le élite, insieme a chi ne sostiene i privilegi e ne condivide il benessere, in primo luogo i vertici delle forze armate.

Tra le dieci nazioni dell’Asean (Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico), la Thailandia risulta quella culturalmente meno preparata ad affrontare il cambiamento. I recenti test di proficiency d’inglese l’hanno posta al 100esimo posto su un totale di 112 Paesi e territori coinvolti e al terzo più basso in Asia. Una conferma dell’arretramento sul piano educativo e culturale di una nazione che nel 2019 si trovava nella 74esima posizione e nel 2020 nell’89esima. Dati che mostrano anche come i provvedimenti presi negli ultimi anni per migliorare il livello dell’istruzione, soprattutto nei contesti rurali, sono stati inapplicati o sono falliti. Sicuramente l’insistenza sull’unicità della nazione thai molto influisce sulla motivazione di docenti e studenti riguardo lo studio di materie che implicano un rapporto più aperto con il mondo.

In questa situazione il Paese rischia di disperdere un capitale di investimenti e simpatia che ne aveva sostenuto lo sviluppo accelerato: ad approfittarne sono anzitutto vicini come il Vietnam, la Malaysia e l’Indonesia. Questa dispersione è avviata da almeno tre lustri ed è accellerata al tempo del Covid, quando la contrazione degli investimenti, la chiusura di complessi produttivi stranieri, la caduta dei consumi interni e il crollo del turismo associati alle necessità di tutela della popolazione hanno prodotto una crescita del debito pubblico di una volta e mezza rispetto al 2019, proiettato a sfiorare il valore del 90% del Pil.

Davanti a una posizione ufficiale che diluisce le difficoltà e svia le responsabilità negando ogni legittimità alle manifestazioni di piazza e alle richieste dell’opposizione parlamentare e di gruppi di cittadini di rivedere le politiche anticrisi e quelle di sviluppo, la Thailandia vede appannarsi il suo mito di “Paese-teflon”, ovvero inattaccabile dalle crisi; di una nazione refrattaria alle negatività percepite all’esterno, impegnata a incentivare l’immagine paradisiaca utile ad attrarre investitori, turisti e ogni traffico purché profittevole. 

Un’immagine non più sostenibile. Sono proprio analisti e media thailandesi a parlare di “decennio perduto”: quello che dal 2007 al 2017 ha visto il crollo di un abbozzo di democrazia elettiva e il nuovo protagonismo delle forze armate, decise a non essere più strumentali alle necessità delle élite, ma a gestire in proprio il Paese con il beneplacito del sovrano.

Molti thailandesi sono tornati a ricordare quest’anno il motto “mentire per il bene del Paese” coniato dal generale Suchinda Kraprayoon, a capo del golpe del febbraio 1991 e in seguito approdato opportunisticamente (come l’attuale premier) alla politica parlamentare, sottolineando – e tra questi media autorevoli – come la menzogna non possa più essere al centro delle politiche nazionali.

In questo contesto e nella convivenza con una fede maggioritaria – quella buddhista forte di 400 mila monaci e 30 mila templi e monasteri -, che è elemento identitario imprescindibile, la Chiesa cattolica cerca di trovare un ruolo diverso da quello finora ricoperto: opere educative, assistenziali e sociali portate avanti ovunque con una relativa libertà di azione pastorale, ma una evangelizzazione accolta quasi esclusivamente tra le etnie del Nord. Una sfida che interpella diversi istituti e congregazioni missionari presenti, tra cui il Pime, pronto a rilanciare il suo impegno dopo mezzo secolo di presenza.

 

LA CAMPAGNA PIME

Si chiama “Sale della terra. Educare per integrare in Thailandia” la Campagna del Centro Pime di Milano che ci accompagnerà tutto l’anno e che sosterrà i progetti dei nostri missionari nel Paese asiatico, tra le etnie minoritarie dei monti così come nelle baraccopoli di Bangkok.

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