Stupro di guerra: un’arma per terrorizzare e umiliare

Stupro di guerra: un’arma per terrorizzare e umiliare

Nei conflitti la violenza contro le donne è una tragica costante che traumatizza per sempre le vittime. Nel libro I nostri corpi come campi di battaglia la giornalista Christina Lamb ripercorre le atrocità commesse nelle guerre più recenti e invoca un cambiamento

 

Lola Narcisa Claveria è un’anziana madre e nonna filippina. Nel 1942, era una ragazzina di 12 anni quando i soldati giapponesi che avevano invaso il suo Paese uccisero i suoi genitori e la prelevarono, assieme a due sorelle, per farla diventare una schiava del sesso, una “donna di conforto” per le truppe giapponesi. Narcisa è sopravvissuta, e dopo la guerra ha sposato un uomo che ha compreso il suo dolore, perché anche le sue sorelle erano state stuprate dai giapponesi. Come tutte le vittime di violenza, per decenni è rimasta in silenzio: la società stigmatizza le donne, come se fosse colpa loro per quello che hanno subito. E poi, Narcisa ha avuto dei figli, e ha scelto di tacere per proteggerli. Ormai anziana, ha deciso di parlare entrando a far parte delle Lolas, le “nonnine” in lingua tagalog, un gruppo di anziane sopravvissute che chiede giustizia per quanto hanno subito dai militari giapponesi. Sono trascorsi oltre settant’anni, ma lo stupro è un crimine che resta addosso. Devasta il corpo e la mente, tocca la sfera più intima di una persona. È una ferita che non si cancella e con cui occorre imparare a convivere per il resto della propria vita. Le vittime principali sono donne, ma questo orrore è toccato anche a una ristretta minoranza di uomini e persino a bambini molto piccoli in alcuni teatri di guerra.

Narcisa ha raccontato la sua vicenda alla giornalista inglese Christina Lamb, da trent’anni reporter di guerra più volte premiata, attenta narratrice di quanto accade ai civili travolti da un conflitto. La sua è una delle tante storie racchiuse nel libro I nostri corpi come campi di battaglia (Mondadori, collana Strade Blu). È un testo importante, che mancava. È un viaggio nell’orrore con cui occorre fare i conti se si vuole sconfiggerlo. Dalle schiave yazide dell’Isis alle ragazze rapite da Boko Haram, dai crimini commessi nella “capitale mondiale dello stupro”, la Repubblica Democratica del Congo, alle Rohingya violentate dall’esercito birmano, l’autrice dà voce alle donne e al loro bisogno di ottenere giustizia. Non c’è da illudersi che simili atrocità non possano accadere nella civile Europa, o comunque in Paesi di cultura occidentale: le testimonianze delle vittime bosniache e argentine dimostrano che ovunque un amichevole vicino di casa o un distinto militare dell’esercito nazionale chiamato a proteggere i cittadini può tramutarsi in un carnefice.

Lo stupro in guerra è vecchio come il mondo. Persino la Bibbia autorizzava gli israeliti in battaglia a prendersi le donne del nemico. Il conflitto sovverte ogni ordine sociale e ogni regola di convivenza: per i combattenti, tutti maschi fino a tempi recenti, il bottino di guerra è sempre stato il saccheggio dei beni dell’avversario e il ratto delle donne. Come nota Christina Lamb, nelle guerre del Novecento di cui lei scrive subentra un fenomeno nuovo. Lo stupro non è più solo un atto di lussuria maschile, ma si tramuta in un’arma a basso prezzo per distruggere le comunità, terrorizzare e allontanare le famiglie per sempre da un determinato luogo, ostentare il potere dei vincitori. I crimini perpetrati in Bosnia sono un esempio lampante di questa strategia. «Le vittime avevano dai sei ai settant’anni ed erano state stuprate ripetutamente e spesso tenute prigioniere per diversi anni», scrive la giornalista. «Molte sono state ingravidate con la forza e trattenute finché non era più possibile interrompere la gravidanza. Le donne venivano trattate come proprietà privata, e lo stupro aveva lo scopo di intimorire, umiliare e disonorare». L’obiettivo dei violentatori era annientare una minoranza uccidendone gli uomini e costringendo le donne a mettere al mondo i figli del nemico.

Questi bambini sono ulteriori vittime: la loro semplice presenza ricorda ogni giorno alle madri la violenza subita. Se hanno la possibilità di far ritorno nella loro comunità, le donne spesso sono cacciate dai genitori o dai mariti ed evitate dai vicini. A volte sono spinte a uccidere i piccoli nati dallo stupro. Essere sostenute dai familiari è una rarità: Ba Amsa, per esempio, rapita da Boko Haram in Nigeria e scappata con il figlio nato dagli stupri, è stata reintegrata nella sua famiglia che le ha consentito di tenere con sé il piccolo.

Sopravvivere è una fortuna? Victoire, una donna ruandese intervistata da Lamb, violentata ripetutamente durante il genocidio e rimasta viva, racconta di sentirsi come una morta che cammina. Si soffre per le conseguenze fisiche delle violenze che affliggono il corpo. Dimenticare è impossibile. «A farci questo sono state persone del nostro stesso paese, della stessa città, che parlano la stessa lingua, che hanno la pelle dello stesso colore. E io ancora vivo con loro», racconta.

La giornalista ricostruisce anche i progressi fatti dalla giustizia negli ultimi decenni. Poco alla volta, i tribunali internazionali hanno iniziato a dare peso anche agli stupri, e le vittime hanno incominciato a testimoniare. Dal 2008, lo stupro e le altre forme di violenza sessuale nei conflitti sono riconosciuti dalle Nazioni Unite come crimini di guerra, crimini contro l’umanità o comunque atti che afferiscono al genocidio. È già un importante passo in avanti che esistano basi normative, ma le leggi non garantiscono la condanna dei colpevoli. Secondo il dottor Denis Mukwege, premio Nobel per la Pace 2018 ed esperto nella cura dei danni interni provocati dagli stupri, una donna decide di parlare di quanto le è accaduto non perché l’ha superato ma per contribuire al cambiamento. Perché quello che lei ha subito non accada ad altre donne. E anche perché il mondo sappia.

C’è speranza che qualcosa cambi. La maggiore presenza di donne nei tribunali chiamati a giudicare questi crimini, da una parte, ha permesso qualche condanna (anche se ribaltata da giudizi successivi). Dall’altra, come deterrente sarebbe auspicabile una maggiore partecipazione femminile nei negoziati di pace, nelle forze di peacekeeping e anche negli eserciti. Il conflitto israelo-palestinese è un buon esempio: per quanto non manchino le vittime, non ci sono stupri, perché l’esercito israeliano è ben addestrato e un terzo dei suoi componenti sono donne.