Il Camerun va a pezzi

Il Camerun va a pezzi

Mentre l’Estremo Nord fa i conti con Boko Haram e l’Est con la presenza di migliaia di profughi centrafricani, la situazione precipita anche nelle regioni occidentali con un’escalation di uccisioni, rapimenti e sfollati

 

Quasi 450 mila sfollati e circa 30 mila persone fuggite in Nigeria. E un numero enorme e imprecisato di vittime di cui nessuno parla. «La situazione è terribile. Ogni giorno ci sono tanti morti innocenti. La gente sta soffrendo troppo». Suor Caroline è una religiosa delle Suore terziarie di San Francesco originaria di Shisong, nel Camerun occidentale, attualmente in Italia. La loro scuola, così come la maggior parte di quelle delle regioni anglofone, è chiusa ormai da due anni. E il loro ospedale – un centro d’avanguardia per le cure cardiologiche in tutta l’Africa occidentale (cfr. M.M., ottobre 2018) – fatica a rimanere aperto. «Perché non ci sono più pazienti – le fa eco suor Janet -; la gente ha paura ad uscire di casa, persino per andare a farsi curare. Le stesse suore non percorrono più neppure i duecento metri che separano la casa dal nosocomio, ma prendono un percorso interno al compound; sono prigioniere in casa loro».

Del resto, dopo la terribile esperienza dello scorso 15 novembre quando 16 di loro – tre religiose, tra cui due dottoresse dell’ospedale, e 13 postulanti – sono state sequestrate lungo la strada che porta da Kumbo a Bamenda e tenute in ostaggio per un giorno e mezzo, la prudenza non è mai troppa. Anche perché sequestri e omicidi continuano indiscriminati. Lo scorso 21 novembre è stato ammazzato nella sua parrocchia di Kembong, vicino a Mamfe, padre Cosmas Omboto Ondari, missionario keniano della Società di San Giuseppe di Mill Hill. Il 30 ottobre, un pastore americano, padre di otto figli, è stato ucciso a Bamenda. Qualche giorno dopo, sono stati rapiti e poi rilasciati 79 studenti e alcuni membri dello staff del Collegio presbiteriano sempre a Bamenda. Il 20 novembre è stata la volta di altri 15 studenti, questa volta a Kumba. Mentre il 24, sono stati sequestrati tre religiosi clarettiani sulla strada per Muyenge, in un fine settimana funestato da almeno una sessantina di morti. «La situazione nelle regioni occidentali del Camerun sta diventando sempre più disperata – conferma Samira Daoud, vicedirettore regionale per l’Africa centrale e occidentale di Amnesty International -; nessuno è risparmiato dalla violenza che sfugge a ogni controllo».

Villaggi bruciati, mercati saccheggiati, civili uccisi senza una ragione, scontri e proteste che hanno spinto almeno metà della popolazione delle due principali città, Bamenda e Kumbo, a fuggire via, ma anche cittadine come Bafut, Batibo, Bambui e Bambili sono state interessate da pesanti combattimenti. Le strade sono costellate di posti di blocco ufficiali o clandestini, in entrambi i casi predisposti soprattutto a vessare e depredare i viaggiatori. Scuole, ospedali, negozi e uffici sono chiusi. Internet bloccato. E ogni lunedì, sono state imposte dai separatisti le “Ghost Town”, ovvero “città morte”, nessuno può fare nulla e niente funziona.

A tutto ciò si è aggiunto il fenomeno dei rapimenti che è diventato uno dei tratti caratteristici della ulteriore escalation della “crisi anglofona” che da novembre 2016 destabilizza le due regioni occidentali del Camerun, il Nord-ovest e il Sud-ovest. Re-gioni anglofone, appunto, in un Paese a grande maggioranza francofono, retaggio di una colonizzazione che a quasi a sessant’anni dall’indipendenza mostra ancora drammaticamente tutti i suoi limiti.

Da un lato, infatti, se ne stanno arroccati sulle loro posizioni il governo di Yaoundé e il presidente Paul Biya, 85 anni, al potere dal 1982, e riconfermato, tra molte proteste e accuse di brogli, lo scorso 7 ottobre. Dall’altro, i gruppi di separatisti – gli “Amba Boys” – si sono sempre più radicalizzati, arrivando a chiedere l’indipendenza delle regioni anglofone e autoproclamando simbolicamente la Repubblica di Ambazonia. I loro leader sono in gran parte all’estero e in parte in prigione. Di fatto, attualmente, la situazione sembra fuori controllo, e ad approfittarne ci sono anche gruppi di delinquenti che si accaniscono a loro volta sulla popolazione, che si trova così in mezzo al fuoco incrociato di esercito, ribelli e criminali.

Gli stessi militari, inviati massicciamente dal governo per controllare la situazione, non fanno altro che aggiungere violenza a violenza. Esecuzioni sommarie, taglieggiamenti, rea-zioni spropositate sono all’ordine del giorno nei confronti di chiunque sia sospettato di stare dalla parte dei separatisti. Da sempre marginalizzata dal governo centrale, la popolazione dell’Ovest ha subito molte forme di discriminazione: dalla mancanza di infrastrutture e investimenti all’isolamento imposto con il taglio delle telecomunicazioni al tentativo di imporre il sistema scolastico francese.

Ora, da circa due anni, tutto è bloccato: scuole, ospedali, uffici amministrativi, ma anche il rifornimento di cibo e di beni di prima necessità. «Molti mercati sono stati dati alle fiamme – testimoniano le suore di Shisong -, i negozi sono chiusi e la gente non riesce nemmeno ad andare nei campi per coltivare, perché rischia di essere uccisa».

E così, oltre alle violenze, la popolazione deve far fronte a una crisi umanitaria che si fa di giorno in giorno più severa. Senza che, per ora, si intravvedano possibili vie d’uscita. Anche il tentativo del cardinale Christian Tumi – arcivescovo emerito di Douala originario di questa regione – di convocare una Conferenza generale anglofona, lo scorso 21 e 22 novembre, è fallito per mancanza di collaborazione da entrambe le parti; da un lato, il governo non ha concesso l’autorizzazione a riunirsi a Buea nel Sud-ovest; dall’altro, alcuni leader anglofoni hanno dato forfait perché ritenevano che non ci fossero le condizioni minime di sicurezza.

Secondo Abdou Dieng, direttore regionale del Programma alimentare mondiale, che di recente ha fatto un sopralluogo nella regione, il dialogo è l’unica via possibile per uscire dalla crisi: «Una crisi – ha dichiarato – che è fondamentalmente politica», ma di cui paga il prezzo più alto la gente comune: «Moltissime persone sono dovute fuggire dalle loro case; molti sono scappati nelle città più grandi, ma altri si sono rifugiati nella foresta». Sicurezza e accesso all’acqua – insieme alla riapertura delle scuole e dei centri sanitari – sono tra le priorità individuate anche dal Pam. Ma i tempi per un ritorno alla normalità sono imprevedibili. La crisi, anzi, sembra peggiorare ogni giorno di più.

«Dallo scorso ottobre la situa-zione è diventata insostenibile e abbiamo dovuto lasciare Fontem», testimonia Ribes Riboldazzi del Movimento dei focolari da Douala, la capitale economica del Camerun.  Fontem è una piccola località, situata in una valle verdeggiante e difficilmente raggiungibile della regione anglofona, e  da oltre cinquant’anni è il principale punto di riferimento dei focolarini per tutta l’Africa occidentale. «Dopo una lunga e intensa valutazione siamo arrivati alla conclusione che non ci sono le condizioni necessarie che ci permettano di rimanere a Fontem – scrive Riboldazzi -. È con il cuore pesante che abbiamo deciso di andarcene per il momento». Una decisione sofferta, come quella di gran parte della popolazione che è scappata dalla valle. Qualcuno si è messo in salvo nelle zone francofone, altri nella foresta. Molte famiglie sono divise: i figli mandati altrove perché possano vivere in sicurezza e avere la possibilità di studiare; i genitori rimasti nei pressi delle loro case. Tutte le strade sono bloccate e per uscire dalla vallata bisogna camminare due giorni a piedi.

«Già da due anni – racconta Ribes – il collegio creato e gestito dai focolarini a Fontem con oltre 500 studenti è stato chiuso, mentre l’ospedale rimane aperto con enormi sforzi. Lo staff è al minimo: lavora e vive dentro il nosocomio per motivi di sicurezza e ha grandi difficoltà a reperire farmaci e materiali. I pazienti, dal canto loro, non riescono ad accedervi». Nella grande Mariapoli di Fontem ora vivono molti sfollati. Mentre i giovani focolarini arrivati sin lì in formazione da altri Paesi africani sono stati rimandati a casa.

«C’è un clima di tensione e di sospetto. Non si sa più chi è responsabile di cosa – conferma fra’ Francis dei frati cappuccini di Shisong -; non c’è sicurezza e la situazione umanitaria è sempre più precaria. I frati hanno accolto diversi sfollati. In generale, la Chiesa cerca di fare quello che può per andare incontro ai bisogni della gente, ma le sue stesse strutture sono state spesso prese di mira. È una situazione davvero terribile».

 

CRONOLOGIA

1884: il Camerun viene colonizzato dalla Germania.

1916: britannici e francesi forzano i tedeschi a lasciare il Paese.

1919: il Paese viene diviso in due: l’80% va ai francesi, il 20 ai britannici.

1960: la parte “francese” del Paese proclama l’indipendenza.

1961, ottobre: in seguito a un referendum, una parte della colonia britannica si annette al Camerun, mentre quella più settentrionale si unisce alla Nigeria.

1961: Ahmadou Ahidjo diventa il primo presidente della Repubblica federale del Camerun.

1972: fine della federazione, nasce la Repubblica unita del Camerun.

1982: Paul Biya arriva per la prima volta al potere.

2016, novembre: inizia la ribellione nelle regioni anglofone.

2017, 1° ottobre: viene proclamata la Repubblica di Ambazonia.

2018, 7 ottobre: Biya viene rieletto per la settima volta.