La fede a -30° tra i nativi dello Yukon

La fede a -30° tra i nativi dello Yukon

Il sacerdote romano don Francesco Voltaggio ha trascorso quasi un anno nel grande Nord del Canada, condividendo la vita delle comunità indigene che Papa Francesco vuole visitare e che incontrerà in vaticano, nel contesto del cammino di riconciliazione

Guidare per centinaia di chilometri lungo strade ghiacciate a -30°, incontrando solo orsi, cervi, alci e linci, per andare a celebrare la Messa domenicale. Ma anche imparare a pescare nel fiume gelido per condividere la vita quotidiana dei fedeli. Ha dei risvolti decisamente fuori dal comune l’esperienza missionaria di don Francesco Voltaggio, 36enne nativo di Roma, ordinato sacerdote cinque anni fa nella diocesi di Vancouver, in Canada, e finito a operare per un periodo nello Yukon, provincia selvaggia e “di frontiera”, al confine con l’Alaska.
Cresciuto nella capitale, Francesco si era avvicinato alla fede grazie al cammino neocatecumenale, attraverso il quale era poi approdato, per gli anni del seminario, proprio nella British Columbia. È da lì che, nel 2020, è partito il suo viaggio verso il grande Nord, nelle terre abitate dalle First Nations: i popoli nativi – métis e inuit – la cui storia recente è caratterizzata da marginalizzazione e sofferenze. Una storia a cui non è estranea la Chiesa, visto che tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento, nel contesto delle politiche di assimilazione delle comunità indigene, circa 150 mila bambini nativi furono costretti a frequentare le cosiddette residential school governative, amministrate anche dai religiosi cristiani, vedendo così reciso il legame con le proprie famiglie e la loro cultura.
Non solo: quei collegi furono a volte luoghi di abusi e degrado, in cui almeno 3.200 bambini trovarono la morte per malnutrizione e malattie. È proprio per rendere giustizia alla loro memoria che Papa Francesco, già intenzionato a recarsi in Canada per sostenere il processo di riconciliazione con i nativi, accoglierà in udienza, tra il 28 marzo e il 1° aprile, alcune delegazioni di First Nations.

Don Francesco, come è nata la sua esperienza nei villaggi indigeni?
«A maggio del 2020, in un periodo in cui la pandemia di Covid-19 aveva bloccato la mia partenza per la missione in Asia, giocando a calcio con dei ragazzi nella mia parrocchia a Vancouver mi ruppi il tendine d’Achille: un imprevisto che mi forzò a fermarmi per un periodo, durante il quale la sofferenza si trasformò in un bene più grande, visto che maturai il desiderio di andare ad aiutare il vescovo di Whitehorse, monsignor Héctor Vila, nella scenografica e gelida provincia dello Yukon, dove mancavano pastori soprattutto per seguire le comunità più remote. Si tratta infatti di un territorio molto vasto, abitato da 35-40 mila persone in tutto, la maggior parte delle quali concentrate nel capoluogo. Solo poche migliaia sono sparse in piccolissimi centri, distanti l’uno dall’altro centinaia di chilometri. Ottenuto il permesso dal mio vescovo, a dicembre sono partito».

Com’è stato l’impatto con questa realtà così estrema?
«Il primo mese ho affiancato monsignor Vila, che mi ha aiutato a comprendere la storia di quei luoghi e le ferite della sua gente, di cui sapevo poco. L’ho accompagnato nelle sue visite alle carceri e lì ho incontrato alcuni nativi che condividevano con noi le difficoltà delle loro vite, il dolore per gli sbagli commessi e l’esperienza del conforto che viene da Cristo. Per me è stata anche una delle occasioni per constatare l’eredità di una marginalizzazione che ancora oggi si misura in una prevalenza superiore alla media di casi di stress post traumatico, alcolismo, uso di droghe e suicidi all’interno delle comunità indigene. Così ho cominciato a conoscere queste persone: il primo passo, necessario, per amarle».

È per quello che ha deciso di spingersi ancora più a nord?
«C’era bisogno di sacerdoti per raggiungere le missioni più lontane: per me è stato naturale offrirmi di andare. Sono partito con un’automobile con le ruote chiodate, a bordo taniche di benzina e tutto il necessario per eventuali imprevisti lungo le centinaia di chilometri che mi apprestavo a percorrere da solo, su strade ghiacciate. L’impatto con la mia nuova missione è stato forte: dovevo seguire tre villaggi di circa 300 abitanti ognuno, distanti 200 chilometri uno dall’altro. Nei weekend li raggiungevo a turno per celebrare la Messa, dormendo presso la piccola chiesa del paese. Operavo in collaborazione con due coppie di laici della diocesi che seguivano questi minuscoli centri in assenza del sacerdote: anche grazie a loro, piano piano ho cominciato a conoscere la gente e a condividerne la vita».

Com’era la quotidianità?
«Molto semplice e allo stesso tempo una sfida, per me abituato alla vita di città. Prima di tutto perché ero spesso solo, nei miei viaggi lunghissimi in mezzo alla neve, che si sono però trasformati in un’occasione per lasciare spazio all’ascolto di Dio e sperimentare la sua vicinanza. E poi ho dovuto imparare a tagliare la legna a -30° per accendere il fuoco o a pulire la neve dal tetto della chiesa di legno, mentre per integrarmi nelle comunità ho appreso le attività tradizionali, come intagliare il legno o andare a pesca nel fiume ghiacciato per procurarsi il cibo. Una volta una famiglia nativa mi ha portato nei boschi per insegnarmi a cacciare la selvaggina, a posizionare le trappole… Ma ho anche provato l’esperienza di vedere l’aurora boreale nelle notti gelide! Pian piano, ho cominciato a conoscere quelle persone e ad aprire loro il mio cuore, in modo che anche loro si aprissero a me e alla misericordia di Gesù, che cura anche i traumi più dolorosi».

Chi veniva in chiesa?
«A Messa potevano esserci anche solo due o tre persone, al massimo una quindicina. Io le incontravo, andavo a casa loro: noi italiani siamo abituati alle attività parrocchiali, al catechismo, ma in quei contesti serve prima di tutto il contatto umano. A maggior ragione per alcuni nativi che, anche se sono battezzati, in chiesa non vanno più, a causa delle esperienze dolorose vissute nelle residential school. Si sentono scandalizzati, a volte covano rancore».

Come li ha avvicinati?
«Mostrando loro le mie stesse ferite e la mia fragilità sono riuscito a creare una connessione e a ottenere fiducia, cominciando un percorso insieme alla luce della fede. E ho visto accadere veri miracoli! Come quando, durante un incontro di catechesi sul modello del cammino neocatecumenale, una giovane donna ha raccontato davanti a tutti la sua storia di gravi sofferenze, dichiarando nonostante tutto la sua fiducia nella rinascita attraverso Gesù. Finché in uno dei villaggi, Carmacks, è nata una comunità di 17 persone che ha continuato il cammino di formazione cristiana anche dopo la mia partenza, lo scorso ottobre, quando sono tornato a Roma a studiare Patristica».

La riconciliazione è possibile?
«Sì, se comincia dalla propria vita e dalla capacità di ammettere che ognuno di noi ha bisogno della misericordia di Gesù. Per questo anche la Chiesa deve sempre lasciare la sua comfort zone e restare fedele alla vocazione di andare incontro a tutti. Nello Yukon, io mi sono sentito davvero accolto: c’era chi veniva ad accendere il fuoco in chiesa il giorno prima del mio arrivo, per farmi trovare un ambiente caldo. Come ci insegna Papa Francesco, non bisogna mai avere paura di chiedere perdono: poi è Cristo che viene a riconciliarci». MM