Kazakhstan la pentola che bolle

Kazakhstan la pentola che bolle

Dopo i disordini di gennaio i riflettori sull’area si sono spenti. «Ma la violenza ha aggravato le diseguaglianze», dice padre Guido Trezzani, nel paese da 26 anni

Si sono spenti rapidamente i riflettori sul Kazakhstan, dopo i gravi disordini di piazza che a gennaio hanno causato decine – forse centinaia – di morti e una resa dei conti spietata ai vertici del potere nella Repubblica ex sovietica. «Ma le conseguenze di quelle violenze non hanno fatto che peggiorare la già difficile vita della gente». L’ha constatato di persona padre Guido Trezzani, francescano minore italiano che nel Paese centroasiatico vive da 26 anni e lì guida la Caritas nazionale, con sede ad Almaty.
Proprio la grande città meridionale di quasi due milioni di abitanti è stata l’epicentro degli scontri, scoppiati con il pretesto di un aumento dei prezzi del gas ma la cui regia resta opaca, che hanno esacerbato le contraddizioni di una nazione indipendente dal 1991 e che, ancora intenta ad assestare il proprio equilibrio, vive un momento di forte precarietà.

«Come Caritas ci siamo mossi subito per affrontare l’emergenza degli anziani rimasti bloccati in casa dal coprifuoco, ma anche dal Covid, senza cibo e medicinali, e delle tante famiglie in difficoltà: in molti hanno perso il lavoro perché gli esercizi in cui erano impiegati non sono in grado di riaprire», racconta padre Guido. «Si stanno creando sacche di povertà ancora più grosse di prima: ormai capita che un pensionato a metà del mese debba scegliere se usare il denaro per mangiare o per comperare le medicine».
In Kazakhstan, il sottosuolo nasconde un tesoro sotto forma di materie prime: ingenti giacimenti di gas naturale e petrolio, uranio e altri minerali preziosi, tra cui le ricercatissime “terre rare”, fondamentali per la transizione ecologica e digitale. Eppure, sono ben pochi a beneficiare di questa ricchezza, in primo luogo a causa di un sistema cleptocratico gestito per un trentennio dal padre-padrone del Paese, Nur-Sultan Nazarbayev, insieme alla sua cerchia di oligarchi. «Non a caso – osserva il missionario 66enne – uno dei primi provvedimenti promessi dal presidente Tokayev nel momento della crisi è stata l’istituzione di un fondo attraverso cui tutti i soggetti arricchitisi in questi anni grazie alla loro vicinanza al potere saranno tenuti a risarcire la gente di ciò che le è stato ingiustamente tolto».

Al di là della propaganda, ciò che spicca è «l’esistenza di una forbice enorme e crescente tra il tenore di vita nelle pochissime città più grandi – la stessa Almaty, o la capitale Astana ribattezzata Nur-Sultan – e tutto il resto del Kazakhstan, cioè i villaggi sparsi su un territorio vasto nove volte l’Italia e popolato soltanto da 18 milioni di abitanti, con tutte le difficoltà immaginabili per gestire tali distanze a livello di infrastrutture e servizi». E se fino a qualche tempo fa chi viveva in un piccolo centro dell’immensa periferia kazakha si rassegnava all’eventualità di non avere accesso al riscaldamento o alla luce elettrica, così come a scuole e ospedali, «oggi con la diffusione dei telefonini le persone, in particolare i giovani, hanno consapevolezza delle opportunità di cui sono private». Questo crea «inedite tensioni sociali, mentre le grandi città stanno diventando poli di attrazione di tutta un’umanità che non sempre riesce a realizzare i propri sogni».
Dinamiche che si intrecciano a quelle legate alla composizione etnica del Paese. «Fin dall’epoca sovietica – spiega padre Trezzani – è stata enfatizzata la convivenza tra culture e religioni in questa terra di circa 150 etnie differenti. Tuttavia, è evidente la preponderanza del gruppo kazakho e di quello russo, la cui rilevanza nello spazio sociale e politico sta rapidamente mutando, a fronte di un forte risveglio kazakho».

Una realtà che interpella anche la Chiesa, in un contesto in cui i musulmani costituiscono il 70-75% della popolazione e gli ortodossi il 20-25%, mentre i cattolici sono circa 50 mila. «Spesso purtroppo le nostre comunità sono un po’ chiuse in se stesse», ammette il francescano. «Le parrocchie tendono a identificarsi ancora con l’appartenenza nazionale: ci sono chiese in cui i fedeli pregano in polacco, non conoscono nemmeno il russo, figuriamoci imparare il kazakho! Questo è un limite grosso all’apertura e alla testimonianza verso l’esterno». Un po’ meglio va nelle città, dove a Natale o a Pasqua capita che in parrocchia arrivi una troupe televisiva per fare un servizio sulle tradizioni cattoliche. «Alcune comunità cominciano a muoversi: nella capitale i corsi in preparazione al battesimo per gli adulti si tengono in kazakho. Soprat­tutto, dobbiamo capire che la carità è l’unico strumento che abbiamo in mano per uscire dai nostri confini ristretti». Ne è convinto padre Guido, che a Talgar, nei pressi di Almaty, ha fondato il Villaggio dell’Arca, una realtà nata 25 anni fa dal volontariato insieme ad alcuni giovani in un orfanotrofio e oggi è una comunità che accoglie una sessantina di ragazzi provenienti da famiglie difficili, disabili o senza genitori. Nello staff molti sono musulmani. «An­che nella Caritas, metà dei collaboratori non sono cattolici: è un modo per aprirsi, farsi conoscere e creare relazioni. Negli ultimi trent’anni, la presenza dell’islam nella vita della gente è cresciuta enormemente, per noi quella della convivenza resta una sfida a cui non possiamo sottrarci». MM