Il valore aggiunto della visita a Najaf

Il valore aggiunto della visita a Najaf

Che cosa rappresenta davvero la città di Najaf per gli sciiti? E perché l’incontro che Papa Francesco durante il suo viaggio in Iraq terrà lì con l’ayatollah al Sistani rappresenterebbe un punto di svolta per la storia recente del mondo sciita e per il cammino avviato esattamente due anni fa ad Abu Dhabi con la Dichiarazione sulla Fratellanza umana?

 

La visita, autorevolmente annunciata dal patriarca caldeo Louis Sako, che il Papa compirà durante il suo viaggio iracheno alla città santa degli sciiti, Najaf, per un incontro con l’ayatollah al-Sistani, è talmente importante da richiedere un tentativo di leggerla con gli occhi di un musulmano sciita immerso nella sua difficile vita. A mio avviso questa visita lo toccherà soprattutto per il valore del luogo, che lo riguarda e pervade, quindi per l’importanza teologica dell’interlocutore.

Secondo alcuni racconti il nome di Najaf verrebbe da Nay-Gaft, “fiume secco”: lì Noè avrebbe costruito la sua arca. Un altro racconto ne farebbe il “posto che non può essere raggiunto dalle acque”, lì dove trovarono rifugio Abramo e Isacco. Najaf dunque affonda le sue origini nella mitologia dell’antica Mesopotamia e del suo ruolo nelle origini dei monoteismi abramitici. Questa storia oggi è sottostante le vestigia islamiche della città e quando il Papa vi giungerà, ancor prima di vedere i due minareti e la cupola della moschea di Ali, costruiti nel X secolo e ricoperti di oro zecchino che racchiudono pareti decorate in oro e blu, ne coglierà l’enorme valenza osservando il più grande cimitero del mondo nelle adiacenze. Quel cimitero ospita migliaia e migliaia di sciiti che da tutto il mondo islamico, attraverso i secoli, hanno fatto di tutto per riuscire ad essere sepolti vicino ad Ali.

Cugino di Maometto e sposo di sua figlia Fatima, era lui per gli sciiti (cioè “il partito” di Ali) il vero successore del Profeta, il candidato a loro avviso designato a guidare i musulmani dopo la morte di Maometto. Fu invece soltanto il quarto Califfo e venne ucciso in battaglia, i racconti convergono nel parlare di una pugnalata a tradimento. Si sostiene che fu sepolto segretamente per evitare profanazioni del suo corpo da parte dei nemici, fedeli al capostipite della nuova dinastia califfale espressione della maggioranza sunnita, gli Omayyadi.

Dunque il sangue di Ali e quello poi versato pressoché analogamente, non distante da Najaf, da suo figlio, l’imam Hussein, sono la vera fonte sorgiva di un fiume di fede che non si è mai essiccato, a differenze di quello della mitologia fondante Najaf, l’antico “fiume secco”. Il rapporto profondo, quasi personale, con Ali e Hussein di ogni sciita appare proprio profondo e trova nello sconfinato cimitero di Najaf la sua rappresentazione; essere sepolti a Najaf per ogni sciita è unirsi ad Ali per sempre. Dunque per capire questa tappa del viaggio iracheno di Papa Francesco la prima cosa da capire è questa: il valore del luogo dove andrà. Najaf è la fonte che non si prosciuga dell’identità sciita e quindi la scelta di andare lì equivale a trovare un canale comunicativo profondo con milioni di fedeli.

Ma in che cosa consiste questo rapporto personale di tanti sciiti con Ali? Come capirlo? Per provarci ci può aiutare più di tanti altri l’ideologo della rivoluzione iraniana, Ali Shariati. Vero motore di quel processo rivoluzionario che determinò la caduta dello scià per mano di un’onda rivoluzionaria popolare fatta d laici, comunisti e devoti sciiti, Shariati ha lasciato tante lezioni cruciali per capire che cosa accadde, con toni intrisi delle sue esperienze parigine che lo portarono a diretto contatto con Sartre, Fanon e tanti altri. Un pensiero complesso e rimosso, sebbene sia stato usato anche dalla retorica del fondamentalismo. Ma non è la complessa vicenda storica di sunnismo e sciismo e degli opposti estremismi che qui si può ricostruire. In un racconto sciita ovviamente la dinastia omayyade è l’effige del male, dell’assassinio notturno e a tradimento di Ali e quindi scompare l’importanza che ha avuto la dinastia degli omayyadi nel plasmare un islam non del deserto, ma urbano, mediterraneo, con i suoi alti funzionari ebrei e cristiani. Ma recuperare questo vorrebbe dire collegarne la portata con l’importanza e valenza delle altre dinastie califfali, che ci allontanerebbe da Najaf, luogo di definizione e identificazione di ogni sciita.

Discriminati per secoli dai califfi sunniti, più dei non musulmani, sovente poveri, estromessi, marginalizzati, gli sciiti sono stati anche nell’epoca della “diffusa secolarizzazione” del loro impegno un fattore “sovversivo”, tanto che complice l’assonanza dei vocaboli in arabo, “sciita” e “comunista” sono stati non solo foneticamente quasi sinonimi. L’opposizione al potere costituito nel nome di aneliti alti e di giustizia sociale hanno costruito nei secoli una loro visione che Shariati rappresenta in due tratti cruciali. Il primo è quello del “no”: “L’Islam è una religione che è comparsa nella storia del genere umano gridando il no di Maometto, l’erede di Abramo, espressione dell’unicità di Dio e dell’unità del genere umano, un grido che ripete quanto si trova davanti all’aristocrazia e al compromesso”. E Ali? Ali è l’escluso, il tradito, il custode della devozione all’unità del genere umano: “La storia dell’Islam segue uno strano cammino: un cammino nel quale gangster e ruffiani sia arabi sia persiani, turchi, tartari e mongoli di diverse dinastie, hanno tutti goduto del diritto alla leadership islamica, escludendo la famiglia del Profeta dell’Islam”.

La tesi sciita per cui solo i parenti di Maometto e i loro discendenti avrebbero diritto alla successione di Maometto è confermata, ma l’elenco dei traditori comprende anche dinastie sciite e viene fatto con accortissime parole: il millenario contrasto tra arabi e persiani, come si vede, è rimosso, il vero contrasto è tra usurpatori emersi da tutti i gruppi etnici che hanno avuto la guida dell’Islam e la famiglia devota a giustizia, uguaglianza, fraternità. Il no dell’Islam all’ingiustizia, alla divisione, alle aristocrazie, diventa lo stesso no di Ali. Non a caso Shariati subito dopo indica nella dinastia persiana dei safavidi, che nel XV secolo fece dello sciismo la religione di Stato in Persia, i traditori peggiori, perché fecero di teologi e dotti sciiti, nominati a iosa, le fonti religiose di legittimazione del loro potere, aristocratico e divisivo.

Qui abbiamo una spiegazione certamente da rivoluzionario, quale fu l’ideologo di una rivoluzione che aveva il suo cuore proprio a Najaf. Neanche la storia del tradimento della rivoluzione iraniana e della fuga dall’Iran di Shariati può qui essere fatta. Ma la forza dello sciismo rosso, lo sciismo del sangue, del no, dell’urlo per la giustizia e quindi del significato di Najaf, città dell’uccisione dell’erede di Maometto da parte del potere aristocratico, risulta finalmente accessibile. Secoli di discriminazione, di esclusione, hanno fatto di molti sciiti nel mondo arabo i diseredati di cui parlava Shariati: fino a Khomeini. E proprio Khomeini ci porta alla valenza teologica della scuola di Najaf e dell’uomo che ospiterà il Papa, l’ayatollah al-Sistani. Loro due sono stati i protagonisti del grande dibattito che ha segnato la storia della loro comunità nella seconda metà del Novecento, quello che oggi possiamo riassumere nell’accettazione o nel rifiuto della teocrazia, che Khomeini avrebbe posto al centro del suo programma con lo slogan “solo una buona società può formare buoni credenti”.

Prima che le devastazioni belliche e il trionfo khomeinista riducessero il primato delle scuole coraniche di Najaf a un fatto formale, Najaf era il vero cuore teologico e gestionale dello sciismo; solo di lì il già ayatollah Khomeini, formatosi nel centro religioso iraniano di Qom, avrebbe potuto teorizzare il capovolgimento del quietismo sciita. Gli sciiti riconoscono la loro guida nell’imam, ma il dodicesimo imam, il Mahdi, occultatosi secoli fa, tornerà solo alla fine dei tempi. Per il quietismo della dottrina sciita, nell’attesa del ritorno del Mahdi il clero non ha ruolo politico, pur riservandosi il compito di indicare alle coscienze dei fedeli la retta via. Giunto a Najaf da ayatollah e da esule, Khomeini espose negli anni Settanta la sua dottrina teocratica, che capovolgeva il quietismo teorizzando il governo del giureconsulto, che nell’Iran khomeinista sarà lui, la guida suprema della rivoluzione, e poi il suo successore Khamanei. Già ai tempi della permanenza a Najaf di Khomeini si sa che l’ayatollah al Sistani, iraniano anche lui ma formatosi alla scuola dell’ayatollah quietista al-Khoei, respingeva questa visione, come da allora ha sempre seguitato a fare: il clero, anche nelle sue massime espressioni, insegna teologia, diritto, morale, quindi illumina la società, ma non rivendica un ruolo politico.

Diviene così evidente il valore dell’incontro del Papa con l’ayatollah al-Sistani, espressione di un approccio non teocratico, certamente conservatore in materia dottrinale e provato dalla lunghissima disputa con il potere ai tempi di Saddam Hussein che tentò di desertificare Najaf, favorendo la conquista di un impensabile prestigio da parte dell’iraniana Qom, dove nonostante la resistenza dell’ayatollah Montazeri l’eresia khomeinista ha avuto presa. Riottenere prestigio teologico sarà per Najaf un risultato molto arduo anche per la debolezza dell’Iraq e il peso iraniano, ma proprio questo ritorno di Najaf potrebbe essere una chance per l’Iraq.

Quando nel 2014, sotto la pressione dell’ISIS, l’ayatollah al Sistani emise una celebre sentenza religiosa che definiva la comunità sciita parte dello Stato sovrano dell’Iraq facilitò la mobilitazione miliziana delle forze popolari che oggi sono un grave problema settario e non certo una risorsa; ma forse aprì una prospettiva nuova che grazie all’incontro con il papa potrebbe diventare un’indicazione non settaria ma foriera di cittadinanza condivisa. Se poi, come ipotizzato dal cardinale Louis Sako, davvero a Najaf il Papa e al Sistani firmassero quel documento sulla fratellanza già firmato con la massima autorità teologica sunnita, il rettore dell’Università islamica (sunnita) del Cairo, al-Tayyeb, la parola “pace” tra sunniti e sciiti verrebbe proclamata dalla città del sangue, con la facilitazione di quel vescovo di Roma che nel linguaggio delle ideologie miliziane e antagoniste viene presentato come l’anima dell’Occidente colonialista, crociato, corrotto e predatore.

Quel giorno molti potrebbero scoprire dalla città santa degli sciiti che già vedeva le macerie odierne lo sciita Ali Shariati quando diceva che “le nostre società islamiche si trovano nel loro XII/XIII secolo, cioè nella fase terminale del loro Medio Evo. È opportuno in questa fase storica applicare le categorie culturali del XIX secolo? O non bisogna guardare a quel che accadde in quei secoli in Europa?”. Pensava al processo che a suo avviso portò a scardinare “la dimensione reazionaria della fede” seguita allo splendore romano. Shariati auspicava un protestantesimo islamico per scuotere entrambi gli alberi islamici. Il pellegrinaggio a Najaf di Francesco, stabilendo una comunicazione spirituale con milioni di fedeli, potrebbe aiutare a vedere che intorno alle cupole d’oro di quel pezzo di mondo gli opposti estremismi hanno prodotto e propongono solo macerie, perché entrerà nell’immaginario e nel sentimento di milioni di fedeli da uomo di pace. Questo mi sembra il valore aggiunto della visita a Najaf.