Perché i sufi sono nel mirino dei jihadisti in Egitto

Perché i sufi sono nel mirino dei jihadisti in Egitto

Il sanguinoso attentato di oggi nel nord del Sinai ha colpito una moschea sufi, corrente musulmana che ha lunga storia in Egitto. Persino l’imam di al Azhar al Tayyeb viene da una famiglia sufi. Ma è anche questa una dottrina spirituale che i jihadisti salafiti mirano a distruggere

 

Cresce di ora in ora il drammatico bilancio dell’attentato di oggi alla moschea al Rawdah di Bir El-Abd, nel nord della penisola del Sinai, l’area vicina alla città di al Arish dimostratasi in questi anni ripetutamente fuori controllo da parte dell’esercito di al Sisi. Mentre scriviamo il bilancio ufficiale parla di oltre 230 morti in un assalto che ha visto i terroristi sparare persino sulle ambulanze che giungevano a soccorrere i feriti; ma c’è il timore che questa cifra già terribile possa crescere ulteriormente.

C’è un aspetto importante che vale però la pena di capire: come mai dei terroristi islamisti, dopo gli assalti alle chiese dei copti e le imboscate contro i militari, ora in Egitto attaccano anche una moschea? La risposta sta nel fatto che quella di al Rawdah è una moschea di una confraternita sufi, la corrente mistica musulmana che i salafiti – l’altra corrente dottrinale cui si rifanno i gruppi jihadisti – considerano un’eresia da distruggere. Il legame con il mondo sufi – con la venerazione delle tombe dei propri maestri e un atteggiamento generalmente più incline al dialogo con le tradizioni religiose non islamiche – è un filo rosso che dal Pakistan al Medio Oriente accomuna quasi tutte le moschee non sciite assaltate dall’Isis e da al Qaeda.

Per l’Egitto – in maniera particolare – sono violenze che vanno a colpire una presenza storica del panorama musulmano locale: si calcola che circa il 15% degli egiziani sia legato a questa corrente religiosa islamica, con ben 77 tariqat (confraternite) riconosciute. Lo stesso attuale grande imam di al Azhar – Ahmad al Tayyeb – proviene da una famiglia sufi dell’Alto Egitto e il suo pensiero islamico è fortemente legato a questa tradizione spirituale.

La questione dei sufi è un nervo scoperto della storia recente dell’Egitto: lo stesso Hasan al Banna – il fondatore dei Fratelli musulmani – pur provenendo egli stesso da una confraternita sufi, ne criticava il volto attuale, sostenendo che avevano perso la purezza dell’ascetismo delle origini. Ancora più dura la posizione dei salafiti, corrente cresciuta fortemente in Egitto negli ultimi decenni, che senza mezzi termini considerano i sufi degli eretici, al punto da rendersi responsabili di attacchi alle moschee sufi. Fenomeni questi anche precedenti alla presa del potere da parte di al Sisi.

Non stupisce, dunque, che i sufi nell’Egitto diviso di oggi risultino in maggioranza tra le correnti schierate dalla parte del generale-presidente. Con la conseguenza che le divisioni dottrinali si sono sempre più intrecciate con i messaggi politici, esattamente come avvenuto per i copti. Giusto un anno fa Ansar Bayt al-Maqdis – il gruppo jihadista locale legato all’Isis – proprio nell’area di al Arish, nonostante i suoi cent’anni di età, non aveva esitato a rapire e poi uccidere lo sheikh Sulaiman Abu Haraz, uno tra i più rispettati maestri sufi della regione.

Va anche aggiunto – però – che tra i comuni fedeli musulmani i confini tra il mondo sufi e il resto della galassia sunnita sono in realtà molto meno definiti di quanto la follia jihadista vorrebbe far credere. A Bir El-Abd probabilmente molti musulmani si recavano semplicemente a pregare alla moschea al Rawdah senza farsi troppe domande sull’ortodossia, come invece vorrebbero i salafiti. E con i sufi oggi sono morti. Il che rende ancora più evidente il nichilismo che – alla fine – sta alla radice di queste ideologie fanatiche che continuano a seminare solo sangue e distruzione in Egitto.