Iran: quando la misoginia è il nemico

Iran: quando la misoginia è il nemico

Oltre vent’anni fa, un assassino uccise 16 prostitute per ripulire la sua città dalla corruzione morale. Quando fu arrestato, molti si schierarono a sua difesa. Un film racconta la sua storia e ci aiuta a capire le radici dell’odio verso le donne. Dal 16 febbraio nelle sale italiane

Non è solo questione di chador o di velo che copre i capelli delle donne. La protesta che da mesi sta agitando la società iraniana dopo la morte di Mahsa Amini esprime il desiderio di libertà e di una società più laica in cui la religione sia una dimensione privata, e non politica, della vita delle persone di entrambi i sessi. Per le donne, la situazione è più penalizzante: l’elenco dei divieti è lungo, nei loro confronti la polizia religiosa si accanisce con più livore. C’è una misoginia grave che permea la cultura del Paese e che le giovani generazioni non sembrano più disposte ad accettare.

Per chi non vive in Iran, non è facile capire. A volte anche un film può venire in aiuto. La cinematografia iraniana da anni ci racconta, spesso con coraggio, come si vive nel Paese degli ayatollah. Lo fa anche Holy Spider, il film scritto e diretto da Ali Abbasi, che esce il 16 febbraio prossimo anche nei cinema italiani. Ispirato a una storia vera, questo thriller ha come protagonista uno dei più efferati serial killer della storia della Repubblica Islamica. Si chiamava Said Hanai. Nato a Mashhad -città sacra per gli sciiti, dove si trova il mausoleo dell’ottavo imam Reza, meta di molti pellegrini – aveva combattuto nella guerra fra Iran e Iraq, dove sperava di morire come shahid, cioè martire. Invece era tornato a casa senza un graffio. Si era sposato con una donna devota suggerita dal suo, era padre amorevole di tre figli e manteneva la famiglia facendo il muratore.

Nel 2000, quest’uomo religioso e dall’aria mite si sentì investito di un compito divino: liberare la sua città dalla piaga della prostituzione. Diventò famoso e ricercato dalla polizia con il nome di “ragno”, perché come il predatore attirava le vittime nella sua ragnatela, adescandole per strada per poi ucciderle. Per loro non provava alcuna attrazione, né tanto meno pietà. Nel luglio 2001, la sua carriera di serial killer si concluse con l’arresto.

Detto così, il film può sembrare una versione persiana del Silenzio degli innocenti. Invece no: Abbasi vuole raccontare solo i fatti, non è interessato a impressionare, anzi ci svela fin dall’inizio che l’assassino è Said. Ce lo mostra come è stato, spavaldo e sicuro di sé a tal punto da uccidere le prostitute persino in casa sua, quando la moglie e i figli non c’erano, convinto di fare la cosa giusta e di godere di una protezione divina. Si compiace che i giornali parlino di lui, è interessato alla reazione della società nei confronti dei suoi omicidi che lui reputa eroici, degni di una guerra santa. Ma come tutti i criminali cade in una trappola. E nella seconda metà del film, che ha al centro il processo e la condanna da parte di un giudice islamico, Abbasi mette a fuoco le reazioni della società.

Questa è la parte di maggiore interesse dal punto di vista sociologico. «In un mondo normale non ci sarebbero dubbi che un uomo che ha ucciso sedici persone venga visto come colpevole – ha dichiarato il regista -. Ma qui in Iran era diverso: una parte del pubblico e dei media conservatori iniziò a celebrare Hanai come un eroe. Secondo loro, aveva semplicemente voluto adempiere al suo dovere di persona religiosa, ripulendo le strade della città con l’uccisione di queste donne impure». Alcune scene, ispirate a fatti veri, sono agghiaccianti. La moglie Fatemeh lo difende accusando le prostitute: «Se una donna accetta di salire in moto con un uomo che non conosce, la punizione è la morte», ha detto in un’intervista. Il figlio adolescente Ali, dapprima spaventato per le conseguenze dei crimini del padre, si mostra orgoglioso dopo aver ricevuto la solidarietà dei vicini del quartiere, dell’ortolano che gli regala la spesa e dei commilitoni del padre pronti a difenderlo. «Quelle donne non erano esseri umani», aveva dichiarato Hanai. In lui, neanche un briciolo di rimorso.

Non stupisce che un assassino in preda a un suo delirio di onnipotenza si possa esprimere così. Ma fa impressione che l’opinione pubblica si spacchi e che molti uomini – perché le donne non sono chiamate a esprimersi, a parte la moglie – lo sostengano rivendicando la sua innocenza. «Volevo parlare della misoginia profondamente radicata nella società iraniana – ha detto Abbasi -. Una misoginia che non è religiosa o politica, ma culturale. In Iran abbiamo una tradizione di odio verso le donne».

Come donna, ho trovato terribile che Said Hanai e i suoi difensori non conoscessero l’empatia e nella loro certezza granitica non si interrogassero mai su chi fossero le vittime. In Iran come nel resto del mondo non si finisce sul marciapiede rischiando ogni sera la propria vita senza un motivo serio. Alcune di loro erano tossicodipendenti; c’era anche chi aveva il marito in prigione e nessuna possibilità di mantenersi con un lavoro dignitoso. Holy Spider non può raccontare tutto, ma ai tempi dell’arresto di Hanai, il padre di una vittima aveva accettato di parlare in un documentario. Aveva dato la figlia in sposa a un cugino all’età di 10 anni, avevano avuto sei figli e quando la ragazza era ventenne, il marito si era procurato un’altra moglie, senza darle più un centesimo. Senza aiuto neppure dalla famiglia d’origine, la giovane aveva dovuto prostituirsi per sopravvivere insieme ai suoi bambini. La visione misogina colpevolizza la vittima e non il suo aggressore, e punta il dito sulla presunta immoralità della donna, esonerando gli uomini dalle loro responsabilità.

C’è un’unica nota positiva. Il giudice ha condannato Hanai: in Italia sarebbe stato un ergastolo, in Iran purtroppo c’è la pena di morte. E l’8 aprile 2002 una corda al collo lo ha privato del respiro, come aveva fatto lui con le sue sedici vittime.