Pime e Myanmar storia di un’amicizia

Pime e Myanmar storia di un’amicizia

Dal 27 al 30 novembre, Papa Francesco è atteso nell’ex Birmania. Dove tuttora molti ricordano i missionari del Pime. Un legame che continua attraverso varie forme di collaborazione e solidarietà

 

Un viaggio che sembrava impossibile. E per certi versi forse lo resta comunque, schiacciato com’è dalla grave crisi scoppiata a fine agosto nello Stato di Rakhine, proprio al confine tra Myanmar e Bangladesh, i due Paesi che Papa Francesco si appresta a visitare. La crisi delle migliaia di profughi musulmani rohingya in fuga e delle critiche ad Aung San Suu Kyi, la storica Signora, leader della battaglia per la democrazia in Myanmar, oggi Consigliere di Stato e ministro degli Esteri di un governo civile che deve fare i conti con la forte pressione politica ancora esercitata dal potere dei militari.

Fermarci solo a questa storia, però, non è il modo migliore per capire davvero il Paese che, per la prima volta, dal 27 al 30 novembre, accoglierà la visita di un Papa a Yangon e Naypyidaw. Perché di storie da raccontare, infatti, il Myanmar ne ha tante. E tra queste c’è anche l’amicizia che lega ormai da quasi 150 anni il Pime a questo Paese dell’Asia. Un’amicizia che non è solo storia del passato, ma continua tuttora, nonostante le vicissitudini politiche che – in nome della via birmana al socialismo – portarono nel 1966 all’espulsione di tutti i missionari entrati prima dell’indipendenza, proclamata nel 1948.

Furono 29 i missionari del Pime che – in quel drammatico frangente – poterono restare accanto alla propria gente, qualsiasi cosa questo potesse comportare. Tra loro i vescovi di Taunggyi e Keng Tung, le due Chiese locali (corrispondenti a cinque delle odierne diocesi) che, a partire dal 1858, l’Istituto aveva fondato nella Birmania Orientale, tra le popolazioni di etnia shan, karen, kayan (altre minoranze tuttora attraversate da forti tensioni nei rapporti con Yangon, in quel mosaico molto complesso che è il Myanmar). La scelta di restare fu una vicenda attraversata da grandi esempi di santità, come testimonia la vicenda di padre Clemente Vismara, scomparso nel 1988 dopo oltre 65 anni trascorsi nei villaggi della foresta e proclamato beato nel 2011. Elevato all’onore degli altari come padre Paolo Manna – che qui aveva trascorso dieci anni del suo apostolato missionario – e padre Mario Vergara, uno dei cinque martiri del Pime uccisi in Birmania tra 1950 e il 1953, beatificato anche lui nel 2014 insieme al catechista locale Isidoro Ngei Ko Lat, il primo martire della Chiesa del Myanmar.

Ma anche là dove la santità non è passata attraverso il vaglio dei tribunali canonici a parlare è soprattutto il seme gettato fino alle ultime forze da questi missionari e che le loro comunità ricordano tuttora con grande affetto e devozione. L’ultimo di quella generazione fu padre Paolo Noè, originario di Castano Primo (Mi), morto a Hwari nel 2007 dopo 59 anni trascorsi tra gli shan e i karen, in quelle che fino a poco tempo fa erano rimaste le black area, cioè le aree inaccessibili agli occidentali per via della guerra con gli indipendentisti locali. Ancora sulla soglia dei novant’anni padre Noè si dava da fare in Myanmar coinvolgendo i benefattori italiani per costruire scuole che – scriveva – sarebbero diventate «un segno di amicizia e di fratellanza tra figli dello stesso Padre».

Nel frattempo, però, si stavano aprendo anche altri canali per far sì che il legame tra il Pime e la Chiesa birmana non venisse meno con la scomparsa degli ultimi missionari arrivati prima del 1948. Furono proprio i vescovi del Myanmar a prendere l’iniziativa, chiedendo un aiuto per la formazione nei seminari. La Chiesa locale, infatti, cresceva, si costituivano nuove diocesi, le stesse vocazioni al sacerdozio non mancavano in una comunità che conta attualmente circa 600 mila fedeli su 50 milioni di abitanti. Restava però un grosso problema: le conseguenze della chiusura imposta negli anni più rigidi del governo militare. L’isolamento aveva impedito a lungo alla Chiesa birmana di respirare a pieni polmoni insieme al resto della Chiesa cattolica nel mondo. E tutto questo era avvenuto proprio negli anni in cui il Concilio Vaticano II segnava una svolta profonda anche dal punto di vista dello studio della teologia e nella stessa spiritualità. Così la richiesta al Pime fu dunque quella di aiutare – nelle forme concretamente possibili – il rinnovamento del clero birmano.

Quest’idea si è andata concretizzando a partire dall’inizio degli anni Duemila con la collaborazione nell’organizzazione dell’anno intermedio di spiritualità che viene proposto nel seminario di Taunggyi, al termine degli studi filosofici e subito prima di iniziare il ciclo della teologia a Yangon (e da quest’anno anche nel nuovo seminario interdiocesano di Loikaw, appena istituito). Guidato da un’équipe locale, l’anno di spiritualità si avvale della collaborazione del Pime sia per la formazione dei docenti sia per alcuni brevi cicli di lezioni che alcuni missionari dell’istituto tengono a Taunggyi. Coi giovani seminaristi, cresciuti in un contesto in cui la religiosità ha un carattere ancora molto devozionale, sperimentano il metodo della lectio divina; oppure riflettono insieme sull’eucaristia o sul ministero del sacerdozio a partire dai documenti del Concilio Vaticano II.

C’è poi anche un movimento contrario: dalle diocesi del Myanmar, alcuni seminaristi sono stati inviati a studiare al seminario teologico internazionale di Monza del Pime, con la prospettiva di ritornare poi nelle loro diocesi per l’ordinazione sacerdotale. Un modo anche questo di coltivare un’apertura, avvalendosi di una possibilità che il Pime offre anche a seminaristi di altri Paesi dove l’Istituto lavora o ha lavorato per molti anni.

Questa rete di rapporti – insieme al sostegno economico alle diocesi, mai venuto meno – ha permesso a diversi missionari dell’Istituto di recarsi in questi anni, seppur brevemente, nelle zone dove erano vissuti i loro confratelli morti in Myanmar e di visitare le loro tombe, scoprendo quanto ancora le comunità locali mantengano vivo il loro ricordo. Lo stesso superiore generale, padre Ferruccio Brambillasca, l’anno scorso ha compiuto una di queste visite, toccando anche il villaggio karen di LaikThoo, il primo da cui partì l’attività  dei missionari dell’Istituto nel 1868.

Questi viaggi e contatti hanno permesso al Pime anche di essere testimone delle trasformazioni che attraversano oggi la società del Myanmar, tra speranze e contraddizioni. Uno degli aspetti che balzano all’occhio è lo sviluppo dei contatti via internet, quando appena qualche anno fa la rigidità della censura rendeva molto difficile l’accesso a molti siti. Ma si tocca con mano anche la fatica di una transizione verso la democrazia rimasta per troppi aspetti incompiuta, il contrasto tra la ricchezza delle risorse naturali e la povertà che colpisce moltissima gente, le zone grigie in cui imperversano i trafficanti di oppio e il mercato nero delle pietre preziose, le difficoltà di andare oltre le appartenenze etniche per rafforzare l’identità nazionale.

In questo contesto di fatiche un segnale bello di speranza sono i giovani birmani che, proprio a partire dall’esempio dei missionari che hanno conosciuto da bambini, scelgono di donare la propria vita per la missione ad gentes. Attualmente sono sette, sparsi ai quattro angoli del pianeta: uno è rientrato in Myanmar, due sono in Guinea Bissau, uno a Hong Kong, uno in Papua Nuova Guinea, uno in Brasile e uno in Giappone.

Padre John Phe Thu  è uno di loro. Una storia in qualche modo emblematica. Eppure particolarissima. Da Loikaw a Catió, nella foresta della Guinea Bissau, passando per il seminario teologico di Monza. E un’esperienza di apertura al mondo non solo geografica, ma fatta innanzitutto di tanti incontri. A cominciare da quel primissimo contatto con il Pime nella sua parrocchia. «Ero un bambino – ricorda – e certo ero incuriosito da quel missionario italiano che faceva da parroco, ma non sapevo che era del Pime e neppure cosa fosse il Pime. Si trattava di padre Igino Mattarucco, uno degli ultimi rimasti in Myanmar. Aveva cominciato a costruire la chiesa nella mia parrocchia. Di quei tempi ho ben presente anche il vescovo Giovanni Battista Gobbato. Mi ricordo di lui, i suoi gesti, il suo modo di parlare: aveva una voce formidabile. Noi bambini eravamo come incantati. Quando ci chiamava, correvamo subito da lui».

Nel centro pastorale di Loikaw, ancora oggi ci sono molte immagini che ricordano la presenza del Pime. «Ma io l’ho scoperta meglio più tardi, quando sono entrato nel seminario diocesano. Sentivo parlare di Paolo Manna, Felice Tantardini, Clemente Vismara… La gente si ricordava di loro, erano molto stimati. Ho conosciuto anche padre Noé, l’ultimo dei missionari del Pime rimasto nel Paese dopo la chiusura delle frontiere».

Ma è soprattutto l’incontro con alcuni missionari che hanno insegnato nel seminario di Taunggyi a suscitare la curiosità di padre John, che poi è divenuta una vocazione nella vocazione. «Quando sono entrato in seminario – racconta – volevo diventare un prete diocesano. A Taunggyi alcuni missionari del Pime venivano a tenere dei corsi. Ho parlato con loro, ho riscoperto anche la storia della mia diocesi così legata a questo Istituto. E ho deciso di conoscerlo meglio. Questo ha fatto nascere delle domande dentro di me. Mi interrogavo sulla vita di quei missionari che avevano lasciato tutto, la loro terra, le loro famiglie, ed erano venuti sin qui… Riflettevo anche sul mio cammino. La fede, che avevo ricevuto come dono prezioso, era frutto anche delle fatiche e dei sacrifici di tanti missionari. Dunque, non potevo tenerla solo dentro di me, dovevo condividerla con altri».

L’arrivo in Italia non è stato facile. Per la prima volta padre John deve confrontarsi con un’altra cultura e un’altra lingua. Non si scoraggia, anzi. «Incontrando i missionari, ascoltando le loro esperienze, vedendo il loro entusiasmo, capivo che, oltre al sacrificio di lasciare la propria terra e i propri cari, era grande anche la gioia di incontrare popoli nuovi e di essere portatori del Vangelo. Anche oggi, qui, in Guinea Bissau, mi rendo conto che si impara ogni giorno a rinunciare ai propri interessi e a coltivare l’interesse per gli altri, ad avere un cuore aperto e generoso. È un processo che va coltivato e sostenuto con la preghiera».

Certo, padre John non immaginava di finire proprio in Africa. «Non sapevo niente di questo continente. Nella mia vita non avevo mai incontrato un africano. Il primo è stato un seminarista del Pime. Quando mi hanno presentato questa possibilità sono rimasto un po’ spiazzato. Ma mi sono detto che ero entrato nel Pime non per andare dove volevo, ma dove mi avrebbero inviato. Avevo lasciato uno spazio di disponibilità. Ho accettato volentieri».

Padre John è arrivato in Guinea Bissau nel 2011. Dopo un servizio di tre anni a Bambadinca con padre Dionisio Ferraro, un veterano del posto, con più di quarant’anni di esperienza, ne ha trascorsi altri tre anni nella parrocchia di Nossa Senhora de Fatima a Bissau, accompagnando un gruppo di giovani desiderosi di conoscere ed eventualmente entrare nel Pime (attualmente ce ne sono dieci in seminario in Camerun). Quindi, domenica primo ottobre, ha fatto il suo ingresso ufficiale come parroco nella parrocchia di Catió, una zona di foresta nel Sud del Paese. Una missione “storica” del Pime. E comunque, ancora oggi, una missione di prima evangelizzazione. «È una nuova sfida. Ed è la prima volta che faccio il parroco. Sento una grande responsabilità, ma anche una grande gioia. Devo imparare ancora molto, soprattutto sulla cultura di questi popoli. Ma quando mi dicono che mi comporto come un africano, allora sono davvero felice. Sì, in effetti, oggi in Guinea Bissau, io birmano, mi sento a casa!».

 

New Humanity: 15 anni di solidarietà

Presente da quindici anni in Myanmar, l’associazione New Humanity continua a portare avanti progetti sociali in vari ambiti e, allo stesso tempo, non smette mai di rinnovarsi. Yangon, Taunggyi e Keng Tung sono i tre punti di riferimento nel Paese.

Nella capitale, New Humanity opera soprattutto con realtà che lavorano con i minori, come il Disable Care Centre e la School for Disabled Children, due centri per disabili gestiti dal governo, e diverse scuole monastiche buddhiste. Recentemente è stato avviato un innovativo progetto nel riformatorio minorile di Yangon, dove New Humanity – unica organizzazione oggi presente – garantisce servizi di base per migliorare le condizioni di vita dei ragazzi – dalla costruzione dei pozzi alle visite mediche -, l’istruzione primaria e corsi professionali.

A Taunggyi, dove è cominciata la presenza di New Humanity in Myanmar, l’associazione sostiene l’orfanotrofio “Brother Felice” e collabora con il Centro per disabili delle suore di Maria Bambina. Entrambe queste strutture ricordano la laboriosa presenza di fratel Felice Tantardini, che ha dato la sua vita per il Myanmar. Mentre tra le attività innovative c’è un progetto di creazione di un centro per giovani con problemi di dipendenze.

Qui come a Keng Tung è forte l’attenzione per la formazione agricola. A Keng Tung, in particolare, continua un progetto per migliorare le tecniche di produzione e commercializzazione su base comunitaria a cui è stata affiancata un’importante attività per contrastare la deforestazione, in collaborazione con i villaggi.