Rohingya il rebus di Yangon

Rohingya il rebus di Yangon

Dietro alle migliaia di profughi musulmani una situazione molto più complessa di quanto appare. E tutti i limiti degli equilibri tra il governo civile di Aung San Suu Kyi e il potere dei militari

 

Da settimane arrivano in Occidente le immagini delle migliaia di profughi rohingya – che il Myanmar chiama «abitanti musulmani di origine birmana» – in fuga oltre il confine con il Bangladesh. Immagini accompagnate da dure accuse di pulizia etnica. Che cosa sta succedendo a Yangon? E che ne è delle speranze suscitate dall’esito delle elezioni del 2015?

A innescare nuovamente la miccia su una questione che si trascina da decenni è stata a fine agosto un’offensiva dell’Arsa – Arakan Rohingya Salvation Army, formazione militare indipendentista rohingya – contro posti di polizia nello Stato occidentale di Rakhine. Attentati a cui l’esercito birmano ha risposto con una repressione estesa nei confronti dei villaggi rohingya. Questo ha spinto centinaia di migliaia di musulmani a scappare nel vicino Bangladesh, dove sono accampati nella zona subito oltre il confine.

Al di là delle pressioni internazionali e delle reazioni di Yangon rimane incerto l’esito di questa crisi. Si arriverà all’espulsione dal Myanmar e alla ricollocazione altrove per il mezzo milione di rohingya rimasti nel Paese, insieme ai 700-800mila profughi che in diverse ondate negli anni hanno varcato il confine? Oppure – come chiede il Bangladesh – vi sarà una qualche loro integrazione in Myanmar, Paese che finora ha sempre rifiutato di concedere a questo gruppo etnico diritti e cittadinanza? Forse il governo birmano, in cui ha un ruolo determinante la Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi (ministro degli Esteri e Consigliere nazionale), vorrebbe davvero questa seconda soluzione, ma militari e nazionalisti la rifiutano a priori.

Il punto vero è che l’esecutivo affidato alla Lega nazionale per la democrazia, il partito della Signora, si trova davanti alle proprie contraddizioni, ma anche a rischi elevati. Non va ignorato che la precarietà dei rohingya – popolazione autoctona di un’area che si colloca oggi a cavallo del confine bengalese-birmano – è connessa strettamente agli interessi dei militari. Non a caso, generali e ammiragli, che oggi si affiancano al governo civile in una difficile convivenza, hanno chiesto tra i dicasteri-chiave concessi loro dalla Costituzione il ministero delle Frontiere. Zone di traffici che vanno dal contrabbando di teak e pietre preziose alla coltivazione di oppio, dalla produzione di metanfetamine alla tratta di esseri umani. Affari illeciti che hanno sostenuto e incentivato il conflitto tra l’esercito birmano e le milizie etniche locali. Qui si trovano inoltre le ingenti risorse naturali (legname, pietre preziose, corsi d’acqua utili allo sfruttamento idroelettrico, gas…) il cui controllo assicura non solo ampi benefici, ma anche un potere effettivo sulla fragile democrazia birmana. Il tutto nel quadro di un’economia che avrebbe ampie prospettive, ma non decolla mai perché rallentata dall’insicurezza di molte aree, dalla corruzione, dalla debolezza delle istituzioni e dal calo degli investimenti.

La forte pressione delle diplomazie e degli stessi colleghi Premi Nobel per la Pace su Aung San Suu Kyi – motivata dal suo ruolo guida nella lotta nonviolenta avviata nel 1990 e conclusasi nel 2011 – ha ampie ragioni, ma non può non tenere conto della situazione birmana. E dei pretesti che una posizione di contrasto ai militari e ai nazionalisti o una delegittimazione internazionale darebbero ai suoi avversari. La Signora sta facendo il possibile per tenere unita la nazione; l’alternativa sarebbe la guerra civile con la divisione del Paese oppure una reazione dei militari con il ritorno completo del potere nelle loro mani.

D’altra parte, restano pure due fattori più ampi di rischio. Da un lato, un nazionalismo crescente, anche qui associato a una religione percepita come identitaria per la maggioranza – in questo caso il buddhismo (come in Sri Lanka e in modo latente anche in Thailandia) – che crea una situazione insostenibile a un gruppo minoritario attraverso una strumentalizzazione di fede, tradizioni, interessi economici, limitati eventi criminali, paure e povertà condivise. Dall’altro, il rischio che la disperazione dei rohingya incentivi nei campi profughi l’avanzata del jihadismo internazionale, in grado di approfittare di una nuova testa di ponte in Asia dopo quelle afghana, pachistana, bengalese, filippina e uighura. Vi sono già segnali preoccupanti in proposito. Da questo deriva anche il malcontento effettivamente diffuso tra la gente comune in Myanmar per il sostegno delle grandi organizzazioni globali a gruppi che sono perlomeno a rischio di infiltrazione di istanze radicali e terroristiche. E che arrivano a ricevere più attenzione rispetto ai loro vicini di etnia maggioritaria, ma spesso vittime dello stesso disagio sociale.

A chiarire meglio la situazione contribuisce allora la posizione della Chiesa locale. «Quello dei rohingya è sicuramente un problema rilevante, ma va affrontato nel più ampio scenario della popolazione birmana», ha dichiarato il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, in una recente intervista all’agenzia UcaNews, nella quale ha indicato con chiarezza come «ridurre la visita del Papa alla soluzione di un problema (quello dei rohingya) ne renderebbe sfuocati ragioni e obiettivi e la renderebbe controproducente».

Ancora una volta, occorre che la comunità internazionale tenga conto della complessa situazione di condivisione del potere tra il governo guidato di fatto da Aung San Suu Kyi e dai militari. «Abbiamo due governi paralleli» sintetizza il cardinale, chiarendo che la Costituzione del 2008 costringe il governo civile a prendersi carico dei problemi di oltre cinquanta milioni di birmani, ma lo priva di ogni potere che non sia la conduzione degli affari pubblici. «Suu Kyi – conclude – cammina sul filo e nessuno deve dubitare dei suoi sacrifici e della sua integrità. Tuttavia, il rapporto con i militari è il suo principale limite e rende il suo cammino scivoloso e pieno di ostacoli».