AL DI LA’ DEL MEKONG
La missione, non un’amicizia qualunque

La missione, non un’amicizia qualunque

Cosa aggiunge la Parola di Dio a quelle reti di relazioni che in fondo sono già terreno comune tra gli umani senza scomodare il Dio di Gesù Cristo? La fede non guarisce ma ferisce

 

Sono convinto che la missione della Chiesa sia fatta di incontri, relazioni umane, amicizie, secondo quei processi di umanizzazione universalmente riconosciuti e spesso evocati per accreditare l’Evangelo presso culture non cristiane, alle quali non si vorrebbe recare danno, ma armonia e riconciliazione. Se da una parte queste reti di relazioni positive sono segni e primizie del Regno di Dio che viene, dall’altra sento l’esigenza di aggiungere qualcosa d’altro. Perché ho il dubbio che nell’equazione relazione/missione possa insinuarsi un pensiero debole che tocca anche la teologia. Un pensiero a tratti rinunciatario, irenico, politicamente corretto, attento a non urtare la sensibilità altrui, timoroso di essere tacciato di fondamentalismo e quindi spesso connotato da una filantropia generica e sufficiente a se stessa, propria dei processi di umanizzazione, ma che alla fine perde qualcosa per strada. È indubbio tra l’altro che l’amicizia, l’amore e la riconciliazione sono già esperienze possibili per milioni di persone anche a prescindere da Cristo. Cosa aggiunge dunque la missione, la Parola di Dio, a quell’amicizia, a quelle reti di relazioni, che in fondo sono già terreno comune tra gli umani senza scomodare il Dio di Gesù Cristo?

Si dovrebbe forse esibire un pensiero forte e appellarsi al classico cristocentrismo secondo il quale un umanesimo vero è possibile solo in Cristo? O riproporre la teoria dei semina Verbi che riconduce tutto l’umano a Gesù, Verbo del Padre? Per ora direi di no. Ma non vorrei nemmeno accontentarmi della missione nella prospettiva di una buona relazione, di un progresso e di un benessere spesso associati all’idea di una certa superiorità del Cristianesimo che ha in sé quello che le altre religioni non hanno.

Vorrei partire invece da una rottura e muovermi verso un umanesimo cristiano, che è tale non perché riuscito, compiuto, ma perché ferito. Ferito da Dio, dalla sete di Lui che è la Sua sete di noi. Certo, la missione è fatta di incontri, amicizie e successi da raccontare, ma anche di crisi, lotte e a volte incomprensioni. L’amore di Dio, quando brucia, non sempre risana l’umano anzi, spesso lo ferisce, lo fa patire. Non porta solo e subito armonia, ma lotta, “battaglia” (1 Tm 6,12). La sfida mi pare dunque quella di una radicalità che non scivoli nell’integralismo ma che anche non ceda alla tentazione di liquefarsi nella retorica dei buoni rapporti. Solo questa rottura/ferita tutela dal fondamentalismo religioso e dal qualunquismo dei benestanti.

Raccolgo una prima suggestione dalle Istruzioni di San Colombano nella liturgia delle ore del giovedì della XXI settimana del tempo ordinario. Colombano affronta il tema della vita spirituale come sete di Dio e descrive il paradosso per cui chi crede «cercherà la sorgente, ne berrà», ma «bevendone, ne avrà sempre sete». Parla del credente come di una persona ferita dall’amore, la cui sete è destinata a crescere perché pur «dissetandosi, bramerà con ardore colui di cui ha sempre sete». Parlando poi di Gesù come medico non gli chiede di guarirlo ma di ferirlo: «il Signore nostro Gesù Cristo, medico pietoso, si degni di piagare con questa salutare ferita l’intimo della mia anima». Con una ferita d’amore che spinge a cercare e a cercare ancora anche dopo aver trovato!

Qualcosa di molto simile lo raccolgo da un altro suggestivo passaggio, questa volta di Dante Alighieri quando nel XXXI canto del purgatorio (129), parla di un cibo spirituale e dell’anima che lo gusta. Si tratta però, scrive Dante, di un «cibo / che, saziando di sé, di sé asseta» perché nel darsi all’uomo lo ferisce, non lo sazia, bensì lo asseta ancor di più.

Similmente, una voce più vicina, quella di Elena Bono, testimonia qualcosa di molto simile. «Quando tu mi hai ferita?», chiede la poetessa a Dio. «Forse ero ancora nel seno di mia madre / o forse solo nei tuoi pensieri». E poi, al vertice dell’ispirazione, continua «allorché mi feristi / io non sapevo / quanto il tuo amore facesse male». Fino ad arrendersi al fatto che Dio vuole «soltanto questo in cambio dell’infinito amore / che io soffra l’amor Tuo / che me lo porti come piaga profonda / e non la curi».[1]

La stessa poetessa in un’altra lirica dà la misura della posta in gioco, della ferita interiore che la fede provoca e che spinge a partire per ogni dove inaugurando un tempo nuovo. «Tempo è venuto / di vendere la veste / e comprare la spada. / Tempo di fare in pezzi / il proprio cuore / e darne parte a tutti (…) tempo di ferire / ogni vivo nel cuore / e che ognuno si scavi la sua piaga»; sapendo – conclude la poetessa – che «più la piaga grida / più v’è Dio».[2]

In queste anime dunque la fede non guarisce, ma ferisce. Gesù non ha portato la pace, ma la spada (Mt 10,34), il fuoco (Lc 12,49). Eppure, contro ogni fondamentalismo, si è lasciato ferire e non ha mai ferito. La missione quindi è l’entusiasmo del discepolo non piegato dalla legge, cioè sottomesso, ma piagato dall’amore, cioè amato. È un anelito del cuore che non dà pace, nemmeno quando si è tra buoni amici. È un’inquietudine che non si placa nemmeno quando i conti tornano e potremmo tirare i remi in barca. È un impeto a partire fino a che ogni uomo venga ferito, non guarito, da quello stesso Amore che saziando di Sé, di Sé asseta.

[1] E. Bono, I galli notturni, in E. Bianchi (a cura di), Poesie di Dio, Torino 1999, 123.

[2] Ivi, 99.