Missione Anatolia

Missione Anatolia

Il gesuita padre Bizzeti è stato nominato nuovo vicario, a cinque anni dall’assassinio di monsignor Padovese. Una missione piena di sfide, in una terra cruciale per la storia della Chiesa. «Ma anche per il suo presente»

Nel cuore della città vecchia di Antakya – quell’Antiochia sull’Oronte dove i seguaci di Gesù furono chiamati per la prima volta “cristiani” -, il dedalo di stradine in mezzo a cui sorge la katolik kilisesi, la chiesa cattolica, è stato investito da una ventata di speranza e di fiducia. È la stessa brezza (da queste parti anche la trepidazione è abituata ai toni attenuati…) che soffia da Mersin a Tarso, nel Sud della Turchia, su su fino al Mar Nero, tra i vicoli ripidi che scendono verso il porto di Trabzon, l’antica Trebisonda. In tutta questa zona centro-orientale dell’Anatolia il minuscolo gregge cristiano di rito latino viveva senza un pastore da oltre cinque anni, da quando – era il 3 giugno del 2010 – il vicario apostolico monsignor Luigi Padovese fu barbaramente assassinato dal giovane autista nel cortile della sua parrocchia a Iskenderun. Un delitto avvolto ancora nell’ombra, che lasciò dietro di sé una cortina di paura e inquietudine difficile da dissipare. Perché, nonostante questo pezzo di Chiesa turca si caratterizzi in molti contesti per la sua vitalità – basti pensare alla stessa Antakya, vivace laboratorio di ecumenismo, o alla parrocchia di Mersin, vero “porto di mare” – le circostanze oggettivamente complicate avevano impedito che qui fosse inviato un altro vescovo. Fino ad oggi.

A metà agosto, infatti, Papa Francesco ha nominato il gesuita padre Paolo Bizzeti nuovo vicario apostolico dell’Anatolia. Fiorentino, 68 anni, padre Bizzeti ha nel cuore la Turchia da molto tempo: «L’amore sbocciò quando vi misi piede per la prima volta, nel 1978, e già dai primi anni Ottanta avevo dato la mia disponibilità ad andarci in missione», racconta. Visto che allora i tempi non erano ancora maturi, padre Paolo coltivò questa passione “dall’esterno”: «Cominciai a organizzare pellegrinaggi alla scoperta dei luoghi biblici di questa terra, coniugando sempre la lettura della Parola con l’incontro con la Chiesa viva, presente lì ininterrottamente da duemila anni». In questi decenni, poi, sono seguite tante altre tappe, come la fondazione dell’associazione “Amici del Medio Oriente Onlus” e della “Tavola Pellegrini Medio Oriente”, ma anche la pubblicazione del volume La Turchia. Guida biblica, patristica, archeologica (Edb, 2014). Una passione coltivata parallelamente all’impegno a fianco della famiglie (con la co-fondazione di varie comunità) e a quello formativo: la direzione del Centro Antonianum per la formazione del laicato, a Padova, è solo l’incarico più recente.

Tutte esperienze che il neo-vescovo (l’ordinazione sarà il 1° novembre nella basilica di S. Giustina a Padova) porterà con sé nella sua nuova terra di missione, dove le sfide quotidiane «rappresentano per molti versi l’altra faccia della medaglia rispetto alle stesse questioni cruciali che ci interpellano anche in Occidente, dalle migrazioni ai fondamentalismi», commenta. Senza sottovalutare, naturalmente, la specificità di un contesto complesso, che ne fa una frontiera: «Proprio per questo, pur essendo stato colto di sorpresa da una nomina che non mi aspettavo, tanto più alla mia età, mi sembra che questa missione rientri in pieno nella tradizione della Compagnia di Gesù, caratterizzata dalla disponibilità dei suoi membri ad essere inviati dal Papa anche in situazioni estreme».

Che cosa significa, dunque, essere pastore in queste terre, dove la Chiesa conserva un’eredità incommensurabilmente ricca, mentre sperimenta la quotidianità del piccolo gregge? «In Anatolia c’è una tradizione ininterrotta di tutte le grandi Chiese del Medio Oriente, dagli armeni, ai siriaci, ai greco-ortodossi… Noi cattolici latini rappresentiamo una minoranza nella minoranza. L’Occidente ha forse un po’ sottovalutato la vicenda di questi cristiani nell’ultimo secolo, che invece è preziosa: se infatti perdiamo il contatto, anche fisico, con la geografia della storia della Salvezza, si tratta di un impoverimento per la Chiesa intera». Partiamo allora da luoghi come Antakya e Tarso: «Vi arrivano pellegrini da tutte le parti del mondo: la Chiesa madre dei gentili è più Antiochia che Gerusalemme, perché lì è avvenuta maggiormente l’apertura al mondo pagano, fondamentale per la storia del cristianesimo. Quindi una presenza qui è importantissima per custodire questa tradizione». Non si tratta solo del passato, naturalmente. «Le comunità cristiane presenti oggi costituiscono piccole minoranze, ma si tratta di cristiani convinti, che custodiscono la loro identità con coraggio in un contesto non facile. Per questo devono essere sostenuti e aiutati a prendere sempre più coscienza della propria missione a nome di tutta la Chiesa: la loro è una vocazione»», afferma padre Paolo. Una vocazione il cui testimone, come ormai ovunque, è in buona parte nelle mani dei laici: «La priorità è formare fedeli consapevoli, maturi, capaci di portare avanti la comunità. Dobbiamo far crescere l’autonomia locale: il futuro non sono certo io, non più così giovane, straniero, che conosco poco la lingua, ma sono le nuove generazioni di turchi cristiani».

Ciò non toglie che, per le parrocchie d’Anatolia, la notizia dell’arrivo del gesuita italiano è stata motivo di grande gioia e conforto. «Anche a distanza, sono già stato inondato da un affetto intenso. Questi cristiani desideravano davvero tornare ad avere un pastore, dopo cinque anni vivevano la sensazione di essere stati in un certo senso abbandonati: la mia nomina ha fatto percepire loro che la Santa Sede non li aveva dimenticati».

Il religioso italiano si prepara dunque ad affiancare queste comunità in prima linea anche sul fronte di tante sfide sociali urgenti. Prima fra tutte quella della marea umana in fuga da un Medio Oriente in fiamme, che proprio qui trova il primo punto d’approdo. Con la speranza, in molti casi, di proseguire il proprio viaggio fino in Europa. La maggior parte, tuttavia, per scelta o per forza alla fine resta in terra turca: solo i rifugiati siriani hanno superato ormai il milione e mezzo. Una presenza che interpella pesantemente anche la Chiesa: «Tra questi esuli, dalla Siria ma anche dall’Iraq, molti sono i cristiani», conferma padre Bizzeti. «Nella parrocchia di Mersin, per esempio, tanta parte della pastorale riguarda questi nuovi arrivati, che frequentano il catechismo, fanno la prima comunione o la cresima, celebrano matrimoni».

Anche sul Mar Nero si incrociano alcune frontiere cruciali. In questa regione dove i cristiani nell’ultimo secolo hanno versato un pesante tributo di sangue – e dove nel 2006 un altro sacerdote italiano, don Andrea Santoro, missionario a Trabzon, ha pagato con la vita la sua testimonianza – il nazionalismo esasperato mette in questione la possibilità di sperimentare un modello di pluralismo e inclusione degno di una Turchia moderna. «La libertà religiosa costituisce uno dei segnali privilegiati di un Paese che vive un processo democratico: è fondamentale dunque che si maturino possibilità di convivenza positiva». Eppure, oggi più che mai, questa terra è attraversata da forti tensioni che prendono anche la forma del fondamentalismo: un incarico qui potrebbe fare paura… «Il confronto con il fondamentalismo religioso è diventato una delle grandi sfide del XXI secolo, ovunque», commenta il neo vicario. «Si tratta di un problema serio che non si può affrontare chiudendosi, bensì cercando di capirne le radici e le vere responsabilità. Quel che è certo è che siamo chiamati non a erigere muri ma a costruire ponti, partendo dal dialogo personale, dalla vita comune, pregando insieme l’unico Dio».

Il piccolo gregge cristiano d’Anatolia, in questo scenario, deve scrollarsi di dosso l’etichetta della “minoranza” – una categoria in cui a volte c’è la tentazione di auto-relegarsi – per vivere un protagonismo pieno. «I cristiani devono essere prima di tutto cittadini leali, e portare avanti le battaglie civili che competono a chiunque voglia bene al proprio Paese». Sarà la loro testimonianza di vita, poi, ad essere «lievito nella pasta» della società turca.