AL DI LA’ DEL MEKONG

L’illusione della magia e la Parola di Dio

LA RIFLESSIONE
Spesso preferiamo la dipendenza alla libertà, qualcuno, un idolo, che ci dica cosa fare o cosa prendere per andare avanti. Paolo invece reagisce e parla dei doni dello Spirito di Cristo

In una delle sue omelie a Casa Santa Marta, tempo fa Papa Francesco ha precisato che il cristiano non ha bisogno di oroscopi, negromanti e profeti di ogni sorta, per conoscere il proprio futuro. Ha la Parola di Dio e questo basta per andare avanti. Francesco in quell’occasione ha semplicemente ripetuto l’insegnamento dell’apostolo Paolo quando, nella lettera ai Galati, rievoca i tempi in cui loro stessi erano «sottomessi a divinità che in realtà non lo sono» (Gal 4,8), «schiavi degli elementi del mondo». Accanto al legalismo tipico dell’ambiente giudaico del tempo, come spesso abbiamo rilevato, ora qui Paolo vuole affrontare un’altra minaccia: quella di divinità che non lo sono. Non parla di maghi e indovini, ma vi allude, e rimprovera i Galati di osservare scrupolosamente «giorni, mesi, stagioni e anni» (4,10) senza rendersi conto che questi elementi sono «deboli e miserabili», incapaci di portarci la salvezza.

Eppure, allora come ora, sono migliaia le persone che, spinte dalla paura e dall’incertezza dei rapporti, si rivolgono alle carte e alle stelle – quelle lontane da Betlemme -, per avere conforto e speranza. Non si contano i programmi televisivi, i numeri telefonici a cui rivolgersi, le pubblicazioni che prosperano approfittando della diffusa paura di sé, degli altri e del futuro. L’accentuata fragilità dei rapporti umani, l’atomizzazione della compagine famigliare e sociale che fa terra bruciata attorno alle persone, isolandole, l’esasperata difesa dei diritti individuali, l’eccessiva propaganda che fa di tutto una minaccia – dal maltempo al terrorismo di ogni colore -, tutto concorre ad acuire la paura e il bisogno di aggrapparsi a una speranza. Che costi poco, sia a portata di mano e non richieda troppa fatica. È la tentazione di sempre, quella di avere formule risolutive, magie dall’effetto immediato, come pillole che possano curare ogni tipo di dolore, salvo poi patire in silenzio, incapaci di comprendere che le malattie dell’anima si curano con il dono dello Spirito.

Spesso preferiamo la dipendenza alla libertà, qualcuno, un idolo, che ci dica cosa fare o cosa prendere per andare avanti. Paolo invece reagisce e parla dei doni dello Spirito di Cristo: «amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (5,22). A modo suo sta dicendo che la via di uscita da queste paure non sono gli oroscopi e le pillole, ma la vita dello Spirito, la comunione con Cristo. Nella lettera con frequenza fa riferimento a questa comunione con espressioni sue: «non vivo più io, ma Cristo vive in me», «tutti voi siete uno in Cristo Gesù», «quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo», e ancora parla di «quelli che sono di Cristo». Per l’apostolo la vera alternativa non è tra credere e non credere, ma in “chi” credere: a «divinità, che in realtà non lo sono» (4,8) o all’«Abbà – Padre» di Gesù Cristo?

Giunti fin qui possiamo tirare una prima conclusione e cioè che il cristianesimo presuppone una tale adesione a Cristo da farne una religione mistica, cioè di rapporto tra Lui, il credente e la comunità dei battezzati. «Il cristiano del futuro – scriveva Karl Rahner – o sarà un mistico o non sarà», a indicare che la nota distintiva del credente non attiene alla “performance” morale, ma alla comunione con Cristo. Che è anzitutto una comunione di destini. Sembrerebbe che tutto questo dipenda dal nostro conoscere e aderire a una dottrina e pratica divine, Paolo invece ancora una volta ribalta la prospettiva sostenendo che non si tratta solo di conoscere Dio – perché questa sarebbe ancora una disposizione morale nei Suoi confronti – quanto l’essere da Lui conosciuti (cfr. Gal 4,9). Riecheggiano le meravigliose e consolanti parole del salmo 138: «Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando seggo e quando mi alzo (…) ti sono note tutte le mie vie (…) ti lodo perché mi hai fatto come un prodigio (…)». Ciò che viene prima, dunque, è la benevola disposizione di Dio nei nostri confronti e l’essere da Lui conosciuti che precede e fonda la nostra possibilità di conoscerlo. Stupendo! Per questo Paolo può scrivere ai Romani fugando ogni dubbio circa il destino buono che Dio ha preparato per noi: «Poiché quelli che egli [Dio] da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, (…); quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati» (Rom 8,29-30).

Quello che chiediamo agli oroscopi o ai cartomanti è una sorta di assicurazione sul nostro futuro, quasi a volerlo anticipare, comandare, modificare. Saremmo disposti anche a maledire, a ferire, a chiudere porte o a togliere di mezzo la supposta causa del nostro male di vivere pur di un po’ di sollievo. L’alternativa sembra ancora una volta non tanto tra il credere e il non credere, ma in “chi” credere, al “Tu” divino o gli «elementi di questo mondo»; alla Parola-promessa di Dio, avvalorata dal sacrificio di Cristo, o alle parole di indovini, cartomanti e opinion maker di ogni sponda, che mai morirebbero per noi. Come il poeta anch’io vorrei che sia un “Tu”, e non un idolo fatto da mani d’uomo, a decidere con me, di me e del mio futuro: «poiché qui tutto muore – scrive il poeta Giuseppe Centore – tutto sul proprio orlo si frange (…) mi nascondo in me stesso fino a udirmi tacere (…) T’imploro vieni in punta di luce (…) Tu vieni e inventa l’altra faccia del destino».