La geopolitica dello schermo

La geopolitica dello schermo

Un po’ dappertutto nel mondo, grazie alla proliferazione delle piattaforme di streaming, crescono le serie tv storiche e i film su temi sensibili, che spesso dividono il pubblico e perfino i governi, specialmente quando vanno a toccare narrazioni sensibili del passatoo questioni etniche, religiose e di genere. Ma ci sono anche esempi positivi

Il 29 ottobre la Turchia celebrerà i 100 anni dalla nascita della Repubblica: una grande festa nazionale in occasione della quale la piattaforma statunitense di streaming Disney+ avrebbe dovuto presentare Atatürk, una serie tv sulla storia del “padre dei turchi” Mustafa Kemal. E invece, l’azienda ha deciso di cancellare la distribuzione, sollevando polemiche feroci. Il problema? Il presunto legame tra l’eroe nazionale, intoccabile in Turchia, e il genocidio armeno di inizio Novecento. Se Disney+ ha dichiarato di avere semplicemente «rivisto la propria strategia di distribuzione dei contenuti», aggiungendo che una parte del documentario sarà visibile sul canale tv Fox e la seconda due mesi dopo nei cinema, la Turchia ha accusato la piattaforma di avere ceduto alle pressioni della diaspora armena negli Usa, che ritiene Atatürk tra i responsabili dei massacri degli armeni ottomani durante la Prima guerra mondiale. Alle critiche formali da parte delle istituzioni si è aggiunta la rabbia dei cittadini, che hanno disdetto migliaia di abbonamenti al servizio di streaming al grido dell’hashtag #Disneyiptalet, “cancella Disney”.

La vicenda rappresenta bene una tendenza crescente, quella delle dispute scatenate da prodotti tv o cinematografici a tema storico, complice anche il proliferare delle piattaforme di streaming e dei network mediatici globali. Di recente l’annuncio del gruppo saudita MBC di voler trasmettere una serie sul primo califfo omayyade Mu’awiya bin Abi Sufyan ha affrontato una forte reazione da parte degli sciiti in Iraq e nell’intera regione. Mu’awiya, infatti, fu protagonista di una guerra con il primo imam sciita Ali ibn Abi Talib, assassinato nel 661 d.C. e sepolto a Najaf, dove la sua tomba è una veneratissima meta di pellegrinaggio: ancora oggi molti sciiti nutrono rancore verso gli omayyadi e il loro capostipite in particolare. Una visione opposta a quella dei sunniti. Lo scontro ha rischiato di debordare dal piccolo schermo e riaccendere le tensioni settarie nell’area – «la trasmissione di tali serie è contraria alle nuove politiche moderate perseguite dal Paese fratello dell’Arabia Saudita» – ha tuonato su Twitter il controverso religioso sciita Muqtada al-Sadr – finché l’organismo di controllo dei media iracheno ha ottenuto la cancellazione da parte di MBC Iraq della fiction diretta da Tarek Alarian, ritenuta contraria alle normative nazionali.

Le tensioni religiose o etniche innescate da sceneggiati o film storici non sono certo appannaggio del Medio Oriente e in alcuni contesti – come quello indiano – rischiano di avere effetti violenti. L’anno scorso il film bollywoodiano The Kashmir files, diretto da Vivek Agnihotri, aveva riacceso il dibattito sulla regione per decenni contesa tra India e Pakistan, alimentando l’odio verso i musulmani. La pellicola, che rievoca la rivolta del 1989 contro il dominio indiano durante la quale centinaia di migliaia di indù (i “pandit del Kashmir”) furono costretti a lasciare le loro case, è stata promossa dal governo nazionalista di Naren­dra Modi in funzione propagandistica anti-islam. Così come il più recente The Kerala Story, sulle vicende di tre donne indiane che si uniscono allo Stato islamico, la cui trama controversa (e fuorviante) è stata all’origine di violenti scontri nel Maharashtra e nello stesso Kashmir.

Un po’ dappertutto nel mondo, quando vanno a toccare narrazioni sensibili del passato le fiction alimentano dibattiti accesi. È successo in Egitto, quando Netflix ha presentato la docuserie prodotta dall’attrice hollywoodiana Jada Pinkett Regina Cleopatra. Apriti cielo. Il pubblico è insorto sostenendo che il titolo riscrive la storia egiziana. Il motivo? Cleopatra è interpretata da un’attrice nera (la britannica Adele James). L’avvocato Mahmoud al-Semary ha fatto causa a Netflix, definendo il racconto «afrocentrico» e per questo anche «contro i principi islamici», mentre lo stesso ministro delle Antichità ha dichiarato che la celebre regina «aveva la carnagione chiara e lineamenti ellenistici».

E gli incidenti diplomatici scatenati persino dal popolarissimo Barbie di Greta Gerwig, vietato in Vietnam per le scene in cui appare la mappa del Mar Cinese meridionale con zone contese tra le nazioni dell’area, dimostrano quanto oggi i contenuti del piccolo e grande schermo siano una questione tutt’altro che da prendere alla leggera. E qualche volta, per fortuna, puntano ad avvicinare le visioni sul passato, invece che a dividere.

Particolarmente interessante è il caso di alcuni korean drama, le serie tv della Corea del Sud che abbattono gli stereotipi sulla Corea del Nord e alimentano un sentimento di vicinanza tra Nord e Sud. Il caso più significativo è quello di Crash Landing on You, che da TvN è sbarcata su Netflix, diventando un successo internazionale.

In Africa, invece, una vicenda tragica e quasi dimenticata come il massacro, a inizio Novecento, di decine di migliaia di herero e nama da parte delle truppe coloniali tedesche in Namibia è al centro di due recentissimi film: uno, Under the Hanging Tree, del regista namibiano di origini herero Perivi Katjavivi, mette in scena il punto di vista delle vittime, mentre l’altro, Der Vermessene Mensch, del tedesco Lars Kraume, rovescia la prospettiva proponendo lo sguardo dei carnefici. Sempre, tuttavia, per raccontare una pagina nera della storia e ricordarne le responsabilità.