Sinodo: lo sguardo delle periferie

Sinodo: lo sguardo delle periferie

Camminare insieme. È il senso più profondo del Sinodo sulla sinodalità. Noi proviamo a rileggerlo in una logica missionaria con voci del Pime da Papua Nuova Guinea, Costa d’Avorio e Messico

In questo mese di ottobre l’attenzione sarà inevitabilmente concentrata su Roma. Ma il Sinodo sulla sinodalità ha – proprio per il suo tema e per la sua natura – una dimensione di “insieme” che riguarda da vicino anche le Chiese particolari e le comunità cristiane di tutto il mondo. Per questo, abbiamo pensato di rileggere le dinamiche che hanno caratterizzato le fasi preparatorie del Sinodo, ma anche le aspettative su questa grande Assemblea, da tre prospettive “periferiche” e attraverso lo sguardo di alcuni missionari del Pime impegnati in ambiti diversi: padre Giorgio Licini da Port Moresby, dove è segretario della Conferenza episcopale della Papua Nuova Guinea e delle Isole Salomone; padre Anand Krishna Mikkili dal villaggio di Ouassadougou in Costa d’Avorio; e i padri Mauro Pazzi e Domingos Tchuda dalle montagne del Guerrero nel Sud del Messico.

PAPUA NUOVA GUINEA
Padre Giorgio Licini

«È un piccolo Concilio», dicono alcuni del Sinodo convocato in questo mese di ottobre in prima sessione e di nuovo dopo dodici mesi. La formula appare ragionevole e di fatto inevitabile: vescovi eletti dalle Conferenze episcopali, membri ex officio, altri di nomina pontificia, religiosi e laici con diritto di voto, esperti e consulenti. Per la prima volta una “truppa” di quattrocento persone. Non una sessione (ottobre 2023), ma due (ottobre 2024).

La terminologia, tuttavia, non aiuta troppo i comuni fedeli. Il gioco di parole, Sinodo sulla sinodalità, rende ancora più curiosa la domanda sull’oggetto in questione. Ma una volta compresa la terminologia, gli orizzonti si aprono spaziosi: “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione”. Se l’idea del camminare insieme è quella centrale, ne risulta che, dal punto di vista pastorale e spirituale, l’immagine e la realtà più vicina è quella del pellegrinaggio. Il popolo di Dio, tematizzato dal Concilio Vaticano II, è in cammino e pellegrino verso la sorgente della salvezza, il Cristo Signore e il suo Regno.
Un’infinità di cose succedono quando si cammina. Dopo l’entusiasmo della partenza, può insorgere la stanchezza del singolo e del gruppo. Non solo: individualismo o solidarietà, perseveranza o rinuncia, sopportazione o impazienza, protagonismo individuale o ascolto. Come ha camminato la Chiesa per venti secoli, come sta camminando oggi, come intende farlo in futuro?
Qui contano l’atteggiamento di fondo e il modo di vivere e di agire della comunità dei fedeli pellegrini. Camminano insieme o qualcuno vuol stare sempre davanti ignorando la debolezza, trascurando e giudicando chi indietro ha un passo più incerto (clericalismo)? I piedi si piagano nel cammino, le scarpe risultano inadeguate, i bambini e gli anziani, a volte le donne, inciampano, cadono o vogliono fermarsi, chiedono un bicchiere d’acqua (ascolto). I giovani tendono a far gruppo a sé e mal sopportano la compagnia degli adulti e disdegnano quella dei bambini da cui si sono appena emancipati. Come rispettare la loro crescita e i loro spazi, mantenendoli comunque all’interno della comunità? Una gara seleziona i migliori, un pellegrinaggio no (inclusività) perché ciò che lo qualifica è un’intrinseca dimensione spirituale. Preghiera personale e liturgia comunitaria portano o no alla comunione con Dio? Il pellegrino incontra Dio. Non gli basta lottare per il traguardo (attivismo).

La Chiesa sinodale non esclude l’autorità, il servizio alla verità, la distinzione tra sacerdozio ministeriale e sacerdozio comune dei fedeli e tanti altri capisaldi della Chiesa. Non si parla di dottrina, ma di comportamento, privilegiando l’ascolto e l’accoglienza al di là del difetto ed eventualmente dell’errore, guardandosi dal trasformare la posizione di responsabilità in atteggiamento di distacco, dominio e prestigio, camminando non solo davanti ma anche dietro, a fianco e in mezzo al gruppo dei pellegrini. Il cammino sinodale può risultare una sfida quasi impossibile in ambienti fortemente strutturati, gerarchici, con una prevalenza dei principi sulla prassi, dell’oggettivo sul soggettivo. Non bisogna tuttavia cadere nel rischio opposto e ritenere che ogni posizione abbia uguale diritto di cittadinanza e validità. Si è detto che non di disciplina, di insegnamenti e di dottrina si tratta ma dell’intima disposizione del cuore. È questo che rende la Chiesa diversa dal tempio e da un’eredità religiosa tendenzialmente esclusiva e formale da cui Gesù di Nazareth ha tentato di sganciarla.

Una grande tentazione, ma fuorviante, è quella di compilare “pagelle di sinodalità”. Non va bene neanche tra Chiese antiche e più recenti. È vero che nelle Chiese del Sud del mondo – come quella in cui viviamo qui in Papua Nuova Guinea e Isole Salomone – lo spirito comunitario è più accentuato per motivi culturali e sociologici. Ma non è una garanzia contro l’autoritarismo, l’esclusione, i privilegi clanici, il familismo, terreno fertile per il clericalismo. Il vantaggio è forse sul piano pastorale. La collaborazione e la condivisione dello sforzo tra vescovi, sacerdoti, religiosi e laici sono realtà della prima ora nell’ambito dell’impegno missionario moderno e permangono tuttora. Presso le Chiese occidentali e orientali di antica data, le posizioni e i ruoli ben strutturati solo ora vengono relativizzati dalla crisi numerica e dal crollo di riconoscimento pubblico nella società pluralista e non di rado scettica. La sinodalità, tuttavia, non è di per sé un rimedio, ma un richiamo a come dobbiamo essere, alla nostra natura originaria, indipendentemente dallo stato attuale della comunità di cui facciamo parte e del nostro personale cammino.

COSTA D’AVORIO
Padre Anand Mikkili

Un proverbio africano dice che se vuoi andare veloce, vai da solo: ma se vuoi andare lontano, vai insieme ad altri. Quando si cammina insieme, si cresce insieme e si cresce meglio. È per questa crescita che il Santo Padre ha voluto proporre un Sinodo. E il tempo del Sinodo è il tempo della grazia, che ha permesso anche alle Chiese particolari come quelle africane di riflettere per poter camminare tra di loro e con le altre Chiese.
Nella nostra diocesi avevamo vissuto un momento di dialogo e riflessione sul tema della “Chiesa-famiglia di Dio a Bouake: un Sinodo per una nuova evangelizzazione”. In quell’occasione abbiamo riflettuto sui problemi attuali e ne è nata una guida pastorale per proporre il Vangelo in particolare alle nuove generazioni che si confrontano con diversi problemi sociali e spirituali. Quando è stato avviato il percorso verso il Sinodo sulla sinodalità non ci siamo sentiti impreparati.

Lo spirito sinodale non è una cosa strana per noi. Nel villaggio, in un modo o nell’altro, lo viviamo nel quotidiano. La gente è abituata a camminare, lavorare, guadagnare, ridere e piangere insieme. Gran parte delle giornate si trascorrono con gli altri. È molto raro che qualcuno soffra di solitudine, perché tutti “fanno” il villaggio e il villaggio rappresenta tutti. Il concetto dell’insieme è talmente forte che la comunità viene prima di tutto. Quando abbiamo proposto di camminare insieme, ci hanno detto che già lo facevamo. Questa è stata una novità per me, ma non per loro, che già vivono la sinodalità.
Per la gente di qui, semmai, è il concetto di Sinodo sulla sinodalità che rappresenta qualcosa di nuovo. I lavori di preparazione sono arrivati sino alle nostre comunità perse nella savana. Gli incaricati del coordinamento ci hanno mandato le domande da trattare a livello di comunità di base. Diversi incontri sono stati convocati in parrocchia e nel decanato, per potere dar voce ai nostri pensieri e alle nostre istanze. E anche se alcune domande non incrociavano il nostro quotidiano e certi problemi della Chiesa sono lontani dalla nostra realtà, i fedeli hanno partecipato attivamente.

Ed è stata proprio questa la cosa più bella che ha stupito tutti: la grande partecipazione. È stato un momento dell’incarnazione. Le questioni che interpellano il Papa, i cardinali, le gerarchie sono arrivate sino ai piedi della Chiesa, sino all’ultimo dei suoi fedeli in un villaggio remoto dell’Africa. La nostra comunità si sente fiera che il Papa accolga anche le nostre risposte. Non è una cosa banale. Dopo tanti secoli, la gente ha capito il vero senso della sinodalità. Anche l’ultima persona di una comunità è stata coinvolta in questo Sinodo. Questa è la novità. E questa è la bellezza. Grazie a questo Sinodo, anche il più debole e il più umile è stato valorizzato attraverso il suo coinvolgimento.
Un altro aspetto che ha tanto colpito i miei cristiani è stata l’ampiezza dei temi su cui riflettere. Non abbiamo discusso solo di come camminare in quanto Chiesa-famiglia di Dio, ma anche di come camminare con quelli che non sono cristiani. Questo Sinodo non è solo per la Chiesa, ma per l’umanità che cerca una fratellanza universale.
Ma che cosa si aspettano i fedeli della mia missione dal Sinodo? Certo, non dei miracoli, non hanno grandi attese per quanto riguarda i problemi della loro vita quotidiana. Ma si sentono valorizzati, si sentono coinvolti e responsabili per la loro Chiesa che vuole comminare insieme a loro. Questo è già un grande miracolo per la nostra piccola fede. Ora ci aspettiamo di poter applicare nella nostra vita e a livello delle nostre comunità le proposte della Chiesa sinodale. Sentiamo che questo non è un Sinodo delle gerarchie, ma un Sinodo di tutti, soprattutto dei più piccoli e marginalizzati. E, insieme, ringraziamo per questo dono.

MESSICO
Padri Mauro Pazzi e Domingos Tchuda

Visto dalla nostra parrocchia di La Concordia, sulle montagne dello Stato messicano del Guerrero, in mezzo al popolo mixteco, il Sinodo ci appare come un processo di attualizzazione della Chiesa di oggi, una forma concreta di cambiamento, o meglio un tentativo di tornare a una Chiesa delle origini, dei primi secoli, recuperando alcuni valori radicali. Forse in questo contesto indigeno parte di quei valori umani originari sono sempre gli stessi e non sono cambiati con il passare del tempo. Di fatto la cultura mixteca esisteva già prima di Cristo e si è conservata per molti aspetti sino a oggi.
Eppure il Sinodo ci interpella anche qui. Abbiamo introdotto per la prima volta il tema nell’ottobre 2022 durante l’incontro annuale di formazione dei catechisti delle 34 comunità appartenenti alla nostra parrocchia. Il contesto in cui operiamo è quello di comunità indigene con regole sociali proprie. Ogni individuo adulto, ad esempio, deve compiere alcuni “servizi”: da quello “militare” a quello nell’ufficio comunale sino a quelli per la parrocchia. Molti lavori vengono fatti radunando tutti gli adulti del villaggio: questo vale per i campi così come per la sistemazione delle strade o la costruzione delle case. Se una persona non svolge i doveri comunitari può essere anche espulsa dal villaggio. Per questo, a volte, sono vissuti più come un obbligo che come un vero e proprio servizio alla comunità.

Ci siamo dunque interrogati se vivere la sinodalità in questo contesto possa essere interpretato come un servizio obbligatorio alla parrocchia o – peggio ancora – ai missionari, che si aggiunge a tanti altri. Per questo ci impegniamo a mostrare la bellezza del camminare insieme come popolo di Dio non come un dovere a cui si è tenuti, ma come un dono condiviso.
La vita da queste parti è essenzialmente rurale e piuttosto dura, simile a quella contadina dell’Italia di un secolo fa, quando la gente di paese si conosceva, le famiglie erano numerose, molti lavori erano di cooperazione. La società mixteca è per certi aspetti molto simile: la dimensione comunitaria e sociale è già parte della vita, ne è uno dei principi costituenti, per cui è abbastanza naturale proporre una prospettiva di Chiesa più comunitaria che individuale. Le sfide, però, anche in questa realtà sono tante: si tratta di introdurre un’idea di comunione in un contesto di diffidenza e di violenza; di partecipazione in un vissuto di paura e di chiusura; di missione in una cultura di sincretismo e di superstizione.
Il nostro auspicio è quindi che questo rinnovamento della forma della Chiesa porti in sé anche un rinnovamento dell’essenza della fede, che possa avere un impatto anche nel contesto indigeno e, più in generale, in un Paese come il Messico. Qui il cattolicesimo è arrivato con il colonialismo spagnolo del XVI secolo, ossia portando con sé la dottrina uscita dal Concilio di Trento, molto moralista, rigorista ed esclusivista. Ed è cambiato di poco. Anche se i messicani hanno un atteggiamento allegro e una dimensione sociale generalmente gioiosa, quando si entra nei temi della fede sono molto rigidi.

L’idea di Dio è essenzialmente quella di una divinità potente e separata, che esige un comportamento impeccabile altrimenti non si raggiunge la salvezza. La Vergine Maria rappresenta la dimensione umana, femminile e accessibile di un Dio troppo lontano. Anche per questo, noi missionari siamo chiamati più che mai ad annunciare la bella notizia di Gesù per consolidare il nostro camminare insieme nella gioia di cui già siamo parte.

 

Padre Domingos Tchuda nella missione di La Concordia in Messico, che condivide con padre Mauro Pazzi