Il mondo in seminario

Il mondo in seminario

Per la prima volta nella storia del Pime, quest’anno fra i giovani che intendono entrare in seminario non c’è neppure un italiano. I seminaristi provengono dai quattro angoli del mondo. Rappresentano quelle Chiese che dai missionari molto hanno ricevuto e ora stanno ricambiando

Riproponiamo qui l’ultima “Scheggia di Bengala” pubblicata da padre Franco Cagnasso, missionario del Pime, rientrato dal Bangladesh per un servizio nel Seminario internazionale dell’Istituto, dove tutti i giovani informazione sono stranieri. Una sfida, ma anche un “sogno”, che il missionario affronta «con la fiducia che sia l’inizio di qualche cosa di nuovo e bello».

Siamo tutti in giardino, a gustare cibi e canti camerunesi (e non solo), in una serata dal clima perfetto. Al seminario internazionale del Pime a Monza, celebriamo la giornata dell’unità del Camerun che – mi dicono – non sottolinea tanto l’indipendenza, quanto il giorno in cui la nazione decise di rimanere unita, e di non separare le zone di lingua francese e di lingua inglese. Decisione ora rimessa in discussione da movimenti anglofoni separatisti che preoccupano…

Siamo cinque missionari del Pime (un indiano, un camerunese, tre italiani) e sessanta seminaristi in cammino per entrarvi. Provengono dai quattro angoli del mondo quanto ad origine e anche per servizi ed esperienze fatte: Camerun, appunto, ma anche Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Zambia, India, Bangladesh, Myanmar, Filippine, Brasile…

Per la prima volta nella nostra storia, quest’anno fra i giovani che intendono entrare al Pime non c’è neppure un italiano.

Non è una bella notizia questa, certamente, ma mi fa ritornare alla memoria un pensiero scritto dal piccolo gruppo di giovani missionari che 170 anni fa, nel 1852, presero parte alla prima “spedizione” organizzata dal nuovissimo Seminario Lombardo per le Missioni Estere, che più tardi, unendosi al quasi gemello Seminario Romano, formò il Pime. Dopo aver espresso la loro volontà precisa di lavorare fra coloro che non conoscono il Vangelo, dove non c’è presenza della chiesa, dove ci sono povertà, sofferenza, disagi e nessuno se la sente di andare, questi giovani – preti e laici missionari – si augurano di offrire ai più lontani la ricchezza dell’incontro con Gesù. E azzardano, timidamente, come fosse una speranza troppo ardita, un quadro “da sogno”: un giorno questi popoli ora lontani e privi di tutto, ai quali ci rivolgiamo perché sono ultimi e trascurati, saranno a loro volta non solo membri della chiesa, ma missionari, e condivideranno il nostro desiderio di andare sempre più lontano, diventando a loro volta missionari.

Eccola qua, la profezia “da sogno”, la speranza “ardita” e quasi incredibile è davanti ai nostri occhi. Quando, tanto tempo fa (il prossimo 7 ottobre si compiranno esattamente 60 anni), entrai al Pime come seminarista proprio qui a Monza, c’era una bella varietà di giovanotti di liceo: milanesi, bergamaschi, trevigiani, lodigiani, vicentini, e anche qualcuno un po’ più esotico, toscano o piemontese come il sottoscritto… tutti comunque provenienti da paesi “cristiani”. Ora ciò che mi impressiona non è tanto la varietà di provenienze, ma l’entrata in campo di coloro che pensavamo dovessero ricevere – e ora stanno ricambiando.

Questo non ci esime dal chiederci perché non abbiamo vocazioni italiane. Bisogna riflettere e cercare di capire; però ritengo che il cammino della Chiesa debba essere orientato da valutazioni attente, revisioni, riforme, ecc. ma soprattutto da una grande apertura e docilità allo Spirito, che non si lascia chiudere nelle nostre valutazioni, statistiche, programmazioni. Un vescovo indiano che ha lavorato moltissimo fra i tribali del Nord India – Thomas Menamparampil – ha fatto notare che la chiesa in vari paesi asiatici (e il Bangladesh è fra questi) non è formata da persone che appartengono alla maggioranza, ma per lo più da minoranze tribali: e questo in un certo senso ci riporta agli inizi, quando il messaggio di Gesù incominciò a circolare per il mondo affidato agli Ebrei, un popolo allora minoritario e oppresso. Tuttavia il vangelo di strada ne ha fatta, anche se era stato affidato a gente che agli occhi del mondo contava poco. Secondo mons. Thomas, saranno proprio queste realtà umane piccole, ignorate e di poca importanza dal punto di vista politico, economico, culturale, ecc. a far conoscere il vangelo in Asia.

Allora, che cosa concludo prima di andare a dormire al termine della festa del Camerun? Niente, nessuna conclusione; tutto è aperto, non ci sono bacchette magiche né ricette sicure. E non ci sono realtà senza problemi, limiti, errori. C’è però, senza negare gli aspetti preoccupanti e di rammarico, il desiderio di accettare con gioia questo panorama inatteso, con la fiducia che sia l’inizio di qualche cosa di nuovo e bello.