Blessing, il coraggio della libertà

Blessing, il coraggio della libertà

Blessing è una giovane donna nigeriana vittima di tratta, che ha avuto il coraggio di ribellarsi ai suoi sfruttatori e di raccontare la sua storia. Perché altre ragazze non facciano la sua stessa fine

Anticipiamo un brano del libro “Il coraggio della libertà. Una donna uscita dall’inferno della tratta”, pubblicato dalle Edizioni Paoline in occasione della Giornata internazionale contro la tratta di persone dell’8 febbraio

Non so come abbia fatto a essere così stupida. Ancora oggi, a volte, non posso credere di essere stata tanto ingenua e sprovveduta. Ma anche di essere stata ingannata in quel modo da una persona di fiducia, una donna gentile, premurosa, che pregava sempre e mi voleva bene. O almeno così mi aveva fatto credere. Sembrava proprio che tenesse a me, quella donna… L’ho conosciuta a Benin City, quando mi sono trasferita dopo la laurea in informatica. Avevo affittato due locali, dove vivevo, riparavo computer e vendevo varie cose. Non era facile, ma mi davo da fare e un po’ alla volta stavo costruendo la mia vita.

Poi è arrivata quella donna, Alice. Abitava poco distante e frequentava una chiesa pentecostale, dove ogni tanto andavo pure io. Ci siamo conosciute perché aveva problemi con il suo computer.

Alice era entusiasta del mio lavoro. Diceva che ero intelligente e preparata, che avevo talento ed ero sveglia. Mi incoraggiava molto. E mi faceva pubblicità tra le donne della sua chiesa. Diceva che pregava sempre per me perché ero una ragazza seria e capace, meritavo il meglio. Era una donna che credeva in Dio, come potevo non fidarmi?

Un giorno Alice mi ha detto di avere un fratello in Spagna. Gestiva negozi di informatica in Europa. Aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse, una persona competente e fidata. Lei aveva pensato a me. Ero molto felice e onorata. Finalmente, i miei studi e i miei sforzi venivano riconosciuti e ricompensati. E anche se non avevo mai pensato sino a quel momento di andare all’estero, mi sembrava un’ottima opportunità. A quel tempo, non sospettavo nulla. Non avevo dubbi su di lei. Dal modo in cui viveva, non destava alcun sospetto. Quello che mostrava era una vita buona e retta, pregava molto e non aveva difficoltà economiche. Quando mi ha proposto di andare a lavorare per suo fratello ero molto contenta. Mi offriva un’occasione, perché non avrei dovuto accettare? Mi tendeva la mano, come potevo rifiutare?

Alice ha detto che si sarebbe occupata di tutto lei. Mi ha preso i documenti, il curriculum, il diploma di laurea… Io sono andata a fare il passaporto. Poi un giorno mi ha chiamata: «Congratulazioni! Ora devi andare a Lagos». Lì ho incontrato un uomo che portava la divisa degli agenti dell’immigrazione. Alice diceva che era suo “fratello”, una persona su cui si poteva contare. Abbiamo parlato a lungo. Insisteva sul fatto che stavano cercando una persona seria.

Poi lei mi ha portata all’ambasciata d’Italia per il visto. Mi chiedevo perché, dal momento che dovevo andare in Spagna. L’Italia da noi non ha una buona reputazione. Io non sapevo quasi niente, ma si diceva che chi va in Italia, finisce col rovinarsi. Alice però mi ha detto che avrei avuto un visto Schengen e con quello avrei potuto andare ovunque in Europa. Non ho fatto più domande. In ambasciata, Alice ha parlato con un uomo, non so chi fosse. Io, invece, non ho fatto nessun colloquio. Mi hanno dato un visto di due anni per lavoro.

Dopo qualche tempo, mi ha chiamata, dicendomi di prepararmi a partire. Ero molto eccitata, agitata, emozionata. Allora era proprio vero! Dovevo preparate tutto in fretta, salutare gli amici, la famiglia. Lei stessa mi ha accompagnato all’aeroporto. All’immigrazione, però, hanno detto che il mio visto era falso. È stata una doccia fredda. Non capivo, com’era possibile? Allora Alice ha fatto intervenire quel suo “fratello” che avevo già incontrato. Ha parlato con l’agente che faceva problemi. Alla fine mi ha fatto passare. Ero un po’ a disagio per quella situazione, ma ancora non avevo alcun sospetto. In quel momento, però, ho capito che quella donna aveva potere. Anche quell’altro uomo, quello dell’immigrazione, aveva potere. Sapevo che chi ha potere può ottenere quello che vuole in Nigeria. Ma in fondo che mi importava? Stavo per imbarcarmi ed era l’unica cosa che m’interessasse veramente.

Arrivata a Rabat, in Marocco, ho passato tranquillamente i controlli e sono ripartita per Valencia. Sono entrata in Spagna senza nessun problema. Quando finalmente sono scesa dalla scaletta dell’aereo ero felicissima. Speravo finalmente di avere un lavoro vero, di fare le cose per cui avevo studiato. Ringraziavo Dio perché alla fine avevo deciso di iscrivermi a informatica, sebbene l’avessi fatto a malincuore. Ecco dove mi aveva portata! Ero grata anche ad Alice che mi aveva offerto quell’opportunità. Lei aveva pregato molto per me. Ancora non sapevo che il diavolo potesse presentarsi sotto le sembianze di una persona di chiesa.

Quando sono sbarcata a Valencia è venuta a prendermi una donna nigeriana di nome Glory, di una trentina d’anni. Mi ha portata a casa sua: lì c’erano altre sette ragazze molto giovani. Dicevano di essere venute in Europa per lavorare. Dopo tre giorni, ho provato a chiamare Alice, ma non riuscivo a raggiungerla. Ho chiesto a Glory dove e quando sarei dovuta andare a lavorare. E soprattutto dov’era il fratello di Alice. Perché nessuno si era più fatto vivo? Glory mi ha detto di aver parlato con Alice e che suo fratello stava aprendo un altro negozio in Italia. Era a Napoli, diceva, e avrei dovuto raggiungerlo lì. Ero un po’ contrariata da quel cambiamento, ma sono partita lo stesso.

Da Valencia ho preso un aereo per Bergamo e poi un treno da Milano a Napoli. Avevo il numero di quell’uomo. L’ho chiamato ed è venuto a prendermi. Abbiamo fatto un tragitto in auto di un’oretta, percorrendo strade molto larghe e trafficate. Quando siamo arrivati, però, mi sembrava di essere tornata in Africa. C’erano africani ovunque, che non facevano niente. Che strano… «Ma dove sono finita?», mi chiedevo. «Benvenuta a Castel Volturno!», mi ha detto allora quell’uomo, come se mi leggesse nel pensiero. Ma aveva un tono ambiguo, come se mi stesse prendendo in giro. Mi ha portata in un appartamento dove c’erano altre quattro ragazze. Ho aspettato lì circa tre ore, finché è arrivato un uomo con sua moglie. Dicevano di essere venuti a prendermi.

Una volta in macchina, la moglie ha cominciato a farmi delle domande: «Sai cosa devi fare?». Ho risposto di sì. Lei usava la parola work e io pensavo ai computer. La donna insisteva: «Lo sai che devi “catturare” gli uomini, vero?». E io scherzando: «Ma senza pistola, come faccio?». Solo che non era uno scherzo. Quando mi parlavano di lavoro, io pensavo al negozio d’informatica, loro a tutt’altro. Una volta arrivati a casa mi hanno detto che c’era un posto dove avrei lavorato la mattina, ma ne stavano cercando un altro per la sera. «Perché mi state cercando un lavoro? – ho chiesto -. Pensavo ci fosse già un lavoro per me…». Cominciavo a insospettirmi. Poi il marito mi ha detto che dovevo comprare dei vestiti con la moglie e che la sera sarebbe venuta una donna a prendermi. Ma di che lavoro stavano parlando? Ho chiesto quanto mi avrebbero pagato. Allora il marito si è spazientito e, senza troppi giri di parole, mi ha detto che ero io che dovevo pagare loro: 65 mila euro! E che per farlo, dovevo prostituirmi.

Mi è caduto il mondo addosso. Non sapevo cosa dire, cosa fare. Ero pietrificata, piena di angoscia e di paura. Ero confusa e spaventata. Non riuscivo neppure a pensare. Avrei voluto scappare, ma per andare dove? Non sapevo neppure dove mi trovassi. Avevo paura che mi facessero del male. E poi, ero appena arrivata, mi avevano preso i documenti e chiesto il cellulare con la scusa di cambiare la scheda. Ero nelle loro mani. Nelle mani dei trafficanti! Non ci potevo credere. Com’era possibile? Non ci avevo mai pensato, neppure lontanamente. E adesso, che fare?

Non potevo protestare o ribellarmi. Avevo bisogno di tempo per pensare a quello che avrei dovuto fare. Ma non c’era tempo e non riuscivo a pensare.

La donna, intanto, mi aveva intimato di seguirla e mi ha portata in un negozio cinese per comprare degli abiti. Era marzo e voleva farmi prendere indumenti leggeri e corti. Cercavo di dirle che lì faceva troppo freddo per me. Ma lei non ascoltava. E alle mie proteste ha reagito malissimo. Era una donna spietata. Ho dovuto prendere gli abiti più succinti. Ha scelto anche delle scarpe, ha pagato e ce ne siamo andate. Quando siamo tornate a casa, mi ha detto che qualcuno sarebbe venuto a prendermi quella sera alle otto. È arrivata una donna, a piedi. Non mi ha detto il suo vero nome. Dovevo chiamarla Maman Faith.

Mi ha detto di seguirla e ha cominciato a darmi tutta una serie di istruzioni. Innanzitutto, non dovevo mai rimanere ferma: era sempre meglio camminare per non farsi notare dalla polizia. Mi ha spiegato i diversi tipi di polizia, carabinieri, vigili e le differenti auto. Se uno apriva la portiera, dovevo scappare subito, perché i clienti non uscivano dalle macchine, quelli erano certamente poliziotti. Mi ha spiegato che se venivano in quattro dovevo accettarli tutti e chiedere 20 euro a testa, ma se qualcuno proponeva 15 o 10, dovevo accettare, non potevo rifiutare nessuno. Io ascoltavo e annuivo, ma era come se non capissi. Ero completamente stordita, incredula, impaurita, disorientata… Maman Faith mi introduceva al mio nuovo “lavoro” e alla mia nuova vita in Europa. Una vita in strada.