Centrafrica guerra e pace

Centrafrica guerra e pace

Sarà un vero miracolo se Papa Francesco riuscirà ad andarci. Perché il Centrafrica è tutt’altro che riconciliato. E tra nuovi venti di guerra, la gente chiede al Santo Padre un altro miracolo: la pace

 

«Ma soeur, non dirlo neanche per scherzo! Il Papa deve venire! Anzi, dovrebbe venire un po’ prima. Qui c’è bisogno di un miracolo!». Guai a insinuare il dubbio che Papa Francesco possa avere qualche difficoltà a recarsi in Repubblica Centrafricana, dove si alternano momenti di relativa calma a scoppi di feroce violenza. La situazione è tutt’altro che sotto controllo e suor Elianna Baldi – missionaria comboniana che vive nel Paese dal dicembre 2011 – si aggrappa anche lei alla fede. Sua e della gente. «Una fede grande – dice – altrimenti non si spiega come possano andare avanti in questa situazione. Una fede che oggi si nutre, in particolare, della speranza suscitata dalla visita di Papa Francesco».

Non è il caso dunque di sollevare dubbi. Anche se ce ne sono molti. La capitale Bangui a fine settembre-inizio ottobre è di nuovo sprofondata nel caos e nella violenza e la tensione, altissima, si è estesa al resto del Paese. L’unico barlume di speranza è Papa Francesco.

«Quando ho insinuato che forse anche il Papa non può fare il miracolo della pacificazione di questo Paese ridotto a pezzi, una signora mi ha detto senza esitazione: “Quando lui arriverà, tutta la sua schiera di angeli scenderà con lui e non potranno non riuscire a vincere il male che abita ancora il cuore di tanta gente!”. È con questo sentimento che molti centrafricani aspettano Papa Francesco».

Non si può dire lo stesso delle autorità civili, dei gruppi armati o delle forze internazionali che dovrebbero pacificare il Paese e che fanno di tutto per dividerlo. Calpestando letteralmente la gente.

A distanza di quasi tre anni dall’inizio della crisi – cominciata con i disordini del dicembre 2012 e proseguita con il colpo di Stato del marzo 2013, che ha deposto il presidente (a sua volta golpista) François Bozizé – quello che è uno dei Paesi più poveri e arretrati dell’Africa non solo non conosce pace, ma sembra avviluppato in una spirale di violenza, divisioni, interessi locali e internazionali, giochi di potere e derive religioso-identitarie, con una classe politica immobile e inetta, totalmente incapace di gestire la transizione. Al punto che neppure la capitale Bangui è veramente sotto controllo. E il resto del Paese è in preda all’anarchia e in balìa di gruppi criminali che spadroneggiano, saccheggiano, uccidono, devastano, senza controllo e senza legge. Ma anche senza un’idea, un’ideologia o un fine. Violenza fine a se stessa, che qualcuno però strumentalizza per mantenere il Paese nel caos e continuare a saccheggiarne le ricchezze.

Sarà davvero un miracolo anche il solo fatto che Papa Francesco riesca ad andare in Centrafrica i prossimi 29 e 30 novembre, dopo le tappe in Kenya (25-27) e Uganda (27-29). «Per molti cristiani è più di un segno – conferma suor Elianna -. Non hanno più fiducia in niente e nessuno. La gente è allo stremo. Fugge, torna a casa, fugge di nuovo, ricomincia ogni volta da capo, da zero. Non ne può più. Davvero! Papa Francesco deve assolutamente venire. Altrimenti tutta l’energia che, nonostante tutto, si sta mobilitando per questa visita crollerebbe e la gente perderebbe l’ultimo grande motivo di speranza».

Suor Elianna parla dalla parrocchia di Bimbo, alla periferia di Bangui, piccola municipalità che è diventata un luogo di raccolta di sfollati. La parrocchia stessa ne ha ospitati molti, così come il seminario maggiore e i carmelitani. Decine di migliaia. Che a ondate e a fasi alterne si sono riversati lì per poi defluire verso le proprie abitazioni nei momenti di calma e magari, nel giro di qualche settimana, scappare di nuovo.

«In questa zona, ci sentiamo abbastanza sicuri – dice la missionaria -, ma non possiamo muoverci liberamente. Io posso girare solo nella mia località, ma vorrei tanto essere più vicina alla gente che ha il coraggio di esporsi e di rischiare anche la vita per dire basta a questa situazione».

Anche chi, come la missione delle Nazioni Unite (Minusca) e quella francese Sangaris, dovrebbe promuovere e sostenere il processo di pacificazione e riconciliazione sembra, invece, essere diventato parte del conflitto. La popolazione li detesta, chiede che se ne vadano. Lo scandalo degli abusi sessuali compiuti su minori da parte di militari Onu e francesi non ha fatto altro che accrescere l’ostilità per un contingente che, al di là dei proclami a deporre le armi e a mettere fine alle violenze, non ha fatto quasi nulla. Dopo due anni di presenza, il processo di disarmo non ha dato praticamente alcun risultato. E si moltiplicano le accuse di complicità nel saccheggio delle risorse e nel fornire armi a questo o quel gruppo. E anche di violenze.

Negli scontri di fine settembre, i Caschi blu burundesi hanno ucciso tre persone. «C’è un’enorme esasperazione tra la gente e la tensione è fortissima – interviene da Bouar padre Beniamino Gusmeroli -. Non so cosa potrà succedere». Il missionario betharramita, originario della Valtellina, vive in Centrafrica da più di vent’anni. Dal 1998 è parroco di Notre Dame de Fatima a Bouar, una cittadina a circa 450 chilometri da Bangui. Anche qui la guerra ha portato morte e distruzione. Lui, come le altre congregazioni religiose presenti in città – carmelitani, cappuccini, clarisse, con diversi missionari italiani – ha accolto migliaia di sfollati, così come il compound della cattedrale. Oggi, di nuovo, si trovano a fronteggiare una situazione molto pesante e potenzialmente esplosiva.

«Mentre a Bangui riprendevano gli scontri a fine settembre, qui è stata assaltata e distrutta la gendarmeria e liberati tutti i prigionieri. Le strade sono impraticabili, le ong tutte chiuse. Nessuno sa cosa stia veramente succedendo. C’è davvero molta tensione».

«Ci sentiamo molto vicini alla popolazione – continua -. E la gente, a sua volta, ci dimostra la sua vicinanza. È questa la nostra principale “protezione”. Sappiamo che se sta per succedere qualcosa ci sarà qualcuno che ci avvisa e che, per quello che può, ci protegge». Anche lui non ha molta fiducia nelle istituzioni, che praticamente non esistono più. E anche i leader religiosi – cattolici, protestanti, musulmani – che in questi mesi si sono impegnati per favorire il processo di pacificazione e riconciliazione, sembrano non avere molta presa sulla gente. Certa-mente non ce l’hanno sui miliziani dei vari gruppi armati, che spadroneggiano un po’ ovunque. «Aspettiamo il Papa – dice il missionario -: speriamo proprio che possa venire a portarci una parola di speranza. Ma in questo momento, mi chiedo chi sia veramente disponibile ad ascoltarlo. La gente sì, certamente, ma chi ha le armi e chi ha il potere non ha alcun interesse alla pace. C’è un clima di divisione e di conflitto. Tutti contro tutti. Magari, poi, a questo conflitto viene data una connotazione religiosa, ma questo è un conflitto di interessi. La religione non c’entra. È solo uno strumento, una copertura. Un elemento identitario. La questione è piuttosto etnico-culturale e, appunto, di interessi. Troppe chiusure, ognuno è ripiegato su se stesso. Non c’è nessuna volontà di dialogo».

Nei mesi scorsi, sembrava che si fosse tornati a una certa “normalità”. La gente pareva più serena, era tornata a vivere nelle proprie case e a coltivare i campi. Ma è durato poco. «I due gruppi armati – i Seleka da una parte e gli anti-balaka dall’altra, a loro volta divisi in tanti sottogruppi – sono pronti a battersi in qualsiasi momento», conclude padre Beniamino. Anche suor Elvira Tutolo, dinamica religiosa termolese della comunità femminile di Santa Giovanna Antida, fa fatica a essere ottimista. Da oltre vent’anni vive a Berberati, al confine con il Camerun, dove accoglie ragazzi di strada e cerca di recuperare quelli che vogliono uscire dalle bande armate; anima un centro culturale e ha avviato un progetto di formazione agricola, che per il momento è stata costretta a chiudere. Per le troppe difficoltà e violenze. Che l’hanno segnata profondamente. Al punto che questa estate è dovuta rimanere in Italia più del previsto per superare nel corpo e nell’anima i traumi vissuti. «Non pensavo che mi rimanessero dentro così in profondità – racconta -, ma la violenza che ho visto e vissuto è devastante. Ti scava dentro».

«Mi tornano in mente tutti quei ragazzi che erano come miei figli – racconta -. Ne hanno uccisi duecento e prima spesso li hanno torturati. Una volta ne hanno preso uno, Serge, e lo hanno crivellato di colpi. Poi lo hanno buttato sulla pista di un piccolo aeroporto lì vicino: nessuno è andato a prenderlo. Allora ho chiamato alcuni papà del nostro progetto Kizito. Siamo andati insieme e abbiamo scavato una fossa, dove lo abbiamo seppellito. Conservo ancora i proiettili con cui lo hanno massacrato: 16 pallottole che non riesco a buttare via. La notte spesso mi sveglio con immagini di sangue. Ma ho fiducia che passerà e che potrò tornare. A maggior ragione, visto che in questo nostro povero Centrafrica verrà anche il Papa. Ma dovrà fare davvero un miracolo!». MM