R. D. Congo: Chiesa e potere

R. D. Congo: Chiesa e potere

La Repubblica Democratica del Congo, grazie alla mediazione dei vescovi, ha cercato di superare l’ennesima gravissima crisi politica. Ma la morte del principale oppositore ha rimesso tutto in gioco

 

Sarà un anno cruciale per il futuro della Repubblica Democratica del Congo. E anche per la sua Chiesa che, una volta di più, ha giocato un ruolo politico di primo piano. La Conferenza episcopale congolese, infatti, è stata protagonista di una lunga e difficile negoziazione che ha condotto le parti contrapposte – la maggioranza presidenziale e il Raggruppamento dell’opposizione – a firmare il cosiddetto accordo di San Silvestro, che ha scongiurato l’ennesima crisi politica. Accordo a cui sono seguiti, in queste ultime settimane, ulteriori faticosi negoziati sulle modalità di attuazione. In sostanza su come spartirsi le poltrone. Almeno sino alla morte di uno dei protagonisti-chiave: Étienne Tshisekedi, leader dell’opposizione, deceduto il primo febbraio. Proprio nel momento più delicato del negoziato condotto dalla Chiesa congolese.

Tra critiche e apprezzamenti, l’arcivescovo di Kisangani e presidente della Conferenza episcopale mons. Marcel Utembi Tapa, il vice mons. Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Mbandaka-Bikoro, e il primo segretario abbé Donatien Nshole, hanno portato avanti per mesi – a nome dei vescovi del Paese e presso il Centro interdiocesano di Kinshasa – un paziente e delicato lavoro di mediazione, che ha messo a dura prova le persone in causa. Al punto che, a fine gennaio – e dopo ulteriori inutili tentativi di concludere la partita – mons. Ambongo affermava: «La cattiva fede dei politici sta mettendo a dura prova la nostra pazienza di pastori».

Ma in cosa consiste questo accordo e perché la Chiesa cattolica si è spesa in prima persona?

Innanzitutto perché – non da oggi – la Chiesa è probabilmente l’unica istituzione che può dirsi veramente “nazionale” in R.D. Congo: un Paese in preda al caos a tutti i livelli, dove è difficile dire chi controlla cosa. In secondo luogo, perché la Chiesa – nonostante le sue divisioni interne e i diversi orientamenti politici – è l’unica istituzione veramente “credibile”.

Il degrado della vita politica del Paese, la corruzione enorme e pervasiva, le violenze e i conflitti che continuano a interessare molte città e regioni, lo sfruttamento indiscriminato delle risorse e interessi interni e internazionali, fanno sì che la Repubblica Democratica del Congo sia ormai da molti anni un Paese alla deriva, che riesce miracolosamente e misteriosamente ad andare avanti. Grazie, soprattutto, alla straordinaria capacità dei suoi abitanti di sviluppare un’“arte dell’arrangiarsi” che ha pochi eguali in giro per il mondo.

In un contesto dove tutto o quasi sembra fuori controllo, la Chiesa cattolica con la sua organizzazione a livello nazionale e locale, con la fitta rete di parrocchie, con le Commissioni giustizia e pace che operano capillarmente sin nelle zone più remote e, soprattutto, con i suoi moltissimi centri sanitari (dai dispensari agli ospedali) ed educativi (scuole di tutti i livelli) e una miriade di iniziative sociali e culturali, rappresenta un punto di riferimento importante per una larga fetta della popolazione. Questo le dà anche un’autorevolezza che nessuna altra istituzione ha oggi nel Paese.

A ciò va aggiunto che, già in passato, la Chiesa cattolica è sempre stata protagonista nei momenti più difficili della storia del Paese. Il caso più significativo e noto, riguarda l’attuale arcivescovo di Kinshasa, il cardinale Laurent Monsengwo Pasinya, che agli inizi degli anni Novanta aveva presieduto la Conferenza nazionale sovrana con il compito arduo di transitare l’allora Zaire di Mobutu Sese Seko verso la democrazia. Un tentativo soffocato dallo stesso Mobutu, che venne poi deposto nel 1997- dopo oltre trent’anni di regime – dall’avanzata da est di Laurent Désiré Kabila e del suo variegato e frastagliato seguito di ribelli ed eserciti locali e stranieri.

Oggi la posta in gioco riguarda la possibilità di consolidare la precaria e contradditoria democrazia congolese, che si è in qualche modo rabberciata attorno alla figura di Joseph Kabila. Giunto al potere dopo l’uccisione del padre nel 2001 per una sorta di diritto dinastico, è stato confermato nel ruolo di Presidente dal voto popolare per due mandati. L’ultimo dei quali è scaduto lo scorso 19 dicembre senza che, di fatto, succedesse nulla, tra le inutili proteste dei suoi oppositori e le violenze dei manifestanti. Kabila – che ha cercato in tutti i modi di brigare per un terzo mandato – non mostra alcuna fretta di andarsene. Di qui, la crisi politica, che poteva degenerare in una situazione di conflitto ancora più grave senza il provvidenziale intervento negoziale della Chiesa.

L’accordo raggiunto il 31 dicembre definisce, in sintesi, come dovrà essere gestita tutta la delicata fase elettorale, che dovrebbe definitivamente togliere di scena Kabila. Nel frattempo, però, il suo incarico è stato prolungato per tutto il 2017. L’attuale presidente, tuttavia, non potrà ripresentarsi per un terzo mandato. Mentre il suo grande rivale e storico oppositore Étienne Tshisekedi avrebbe dovuto guidare un’altra determinante istituzione di questa transizione: il Consiglio nazionale di sorveglianza dell’accordo e del processo elettorale, che il Parlamento era stato chiamato a istituire in questo mese di marzo.

L’improvvisa uscita di scena di Tshisekedi – l’oppositore di sempre che sin dai tempi di Mobutu era capace di mobilitare ingenti folle di manifestanti – introduce l’ennesimo elemento di imprevedibilità in una dinamica politica e istituzionale già di per sé intrinsecamente destrutturata e fondata su intrighi opachi e interessi enormi.

«L’accordo prevede una gestione consensuale con tutte le parti coinvolte. Siamo arrivati alla fine del tunnel», aveva dichiarato ottimisticamente mons. Utembi, presentando l’accordo di San Silvestro. In realtà, la luce in fondo al tunnel pare ancora molto lontana. E non solo per la morte di Tshisekedi. Molte sfide, infatti, restano aperte. Una delle principali è la scelta del primo ministro di transizione che va di diritto all’opposizione. E che, a questo punto, potrebbe essere Tshisekedi junior, ovvero il figlio Félix Tshilombo. Anche in questo caso – in perfetto stile congolese – secondo una logica familistica e “dinastica”.

Il resto riguarda, nell’imminente, soprattutto la spartizione delle poltrone nel governo di unità nazionale, nel Consiglio di monitoraggio, nella Commissione nazionale indipendente e nel Consiglio superiore della comunicazione. In prospettiva, invece, i nodi più critici riguardano il finanziamento dell’interno processo elettorale, la sua gestione logistica e la garanzia della sua sicurezza. Tre questioni tutt’altro che semplici.

Entro la fine del 2017, infatti, dovranno tenersi non solo le elezioni presidenziali, ma anche le legislative a livello nazionale e provinciale. Teoricamente in contemporanea. Cosa pressoché impossibile da realizzarsi in un Paese complesso e disastrato come il Congo, dove le infrastrutture – strade e trasporti, innanzitutto – non permettono l’accesso a tutti i territori. Per non parlare dello sforzo finanziario che dovrà essere messo in campo e che necessariamente chiamerà in causa, anche questa volta, la comunità internazionale.

Di fronte a questo quadro di incertezza, sembra lontanissima l’esperienza esaltante delle elezioni del 2006, probabilmente le uniche veramente partecipate e democratiche del Paese. Così come sembra appartenere al passato remoto l’entusiasmo della gente che, in quella circostanza, si era riversata in massa a votare, a volte percorrendo a piedi molti chilometri e sottoponendosi pazientemente a lunghissime code sotto il sole cocente. Anche in quell’occasione, la Chiesa, e in particolare le Commissioni giustizia e pace che si erano sviluppate capillarmente in tutto il Paese, avevano fatto un lavoro straordinario di sensibilizzazione della popolazione e di educazione civica, dando vita a una mobilitazione senza precedenti. Seguita, purtroppo, dalla delusione e dal disincanto, per una politica sempre più lontana dalla gente. Sarà difficile, quest’anno, creare di nuovo un simile clima di partecipazione. Le premesse non sono le migliori, visto che la politica congolese tende ad avvitarsi su se stessa e sugli interessi di pochi, lasciando andare alla deriva il resto del Paese.

E se la Chiesa cattolica, da un lato, sta accompagnando e cercando di ricomporre questa ennesima crisi, dall’altro, è chiamata essa stessa a ritornare in mezzo alla gente per far sì che i congolesi si riapproprino davvero del loro Paese.