Congo in fiamme

Congo in fiamme

Si aggrava la crisi politica in Repubblica Democratica del Congo e si diffondono violenze e caos in molte regioni del Paese. La reazione dei cattolici che si oppongono a un regime sempre più autoritario

 

Morti e feriti a Kinshasa e a Mbandaka, tre preti arrestati a Kisangani, manifestazioni disperse a Lubumbashi, Kikwit e Goma, impedite a Bukavu e Beni, mentre a Mbuji Maji le parrocchie sono state circondate dalla polizia. Intanto, proseguono le stragi in Ituri, gli attacchi nel Sud Kivu e gli stupri nel Nord.

Le cronache quotidiane che arrivano dalla Repubblica Democratica del Congo sono veri e propri bollettini di guerra. Che raccontano di una situazione incancrenita e incandescente che sta degenerando di giorno in giorno. E che ha provocato negli ultimi vent’anni almeno sei milioni di morti, soprattutto nelle regioni orientali. Un vero e proprio Olocausto africano.

Attualmente, quasi quattro milioni di persone sono sfollati dalle loro case e centinaia di migliaia sono rifugiati nei Paesi limitrofi; un milione e mezzo soffre la fame. Per non parlare dei quasi centomila bambini in fuga dai villaggi saccheggiati e dati alle fiamme nella regione dell’Ituri dall’inizio di febbraio.

Eppure, se non fosse per la voce instancabile di Papa Francesco che continua ad attirare l’attenzione su questa come su altre gravissime situazioni di conflitto e di crisi umanitaria – dal Sud Sudan alla Siria – pochissimi si accorgerebbero della catastrofe in cui sta sprofondando questo grande e ricchissimo Paese africano. Che muore ogni giorno di più anche e soprattutto per le sue straordinarie ricchezze minerarie e per l’ottusità e l’avidità della sua classe dirigente e dei suoi molti complici interni ed esterni.

L’opacità della gestione finanziaria, in particolare del vasto comparto dello sfruttamento minerario – oro, coltan, rame, cassiterite, diamanti e altro ancora -, unita alla crisi politica che si trascina da oltre un anno e alle varie situazioni di insicurezza che destabilizzano diverse regioni, fanno sì che la Repubblica Democratica del Congo si trovi oggi sull’orlo di un abisso.

È una “guerra di guerre” quella che sta devastando questo enorme Paese di quasi 85 milioni di abitanti e di oltre 200 gruppi etnici. E non da oggi. «Il nostro Paese – ha scritto a nome dei vescovi il presidente della Conferenza episcopale nazionale del Congo (Cenco), mons. Marcel Utembi Tapa, in occasione della Giornata di preghiera per la pace del 23 febbraio scorso – ha sperimentato diversi tipi di violenza attraverso guerre che sono chiamate con tutti i tipi di nomi: guerra di indipendenza, guerra di liberazione, guerra per le risorse naturali, guerra di occupazione, guerre di rappresaglia e così via. Questa situazione ha fatto tante vittime, calcolate in milioni». E molti altri morti potrebbero aggiungersi, nel corso di quest’anno, alla lunga lista di vittime di una violenza che sta dilagando in tutto il Paese.

Del resto, questo 2018 è cominciato nel peggiore dei modi, con la repressione brutale delle marce promosse dal Comitato laico di coordinamento (Clc) dei cattolici. Già lo scorso 31 dicembre – nella data simbolica della firma dell’accordo di San Silvestro del 2016, che avrebbe dovuto portare verso nuove elezioni, dopo la scadenza del secondo mandato di Joseph Kabila – le forze dell’ordine hanno sparato contro i manifestanti che brandivano croci, Bibbie e rami di ulivo. Le numerose vittime e i molti feriti non hanno scoraggiato i manifestanti che si oppongono con determinazione al tentativo del presidente di perpetuarsi al potere. Nuove elezioni sono state indette per il prossimo 23 dicembre e Kabila ha fatto dichiarare al suo ministro della Comunicazione – senza però mai confermarlo personalmente – che non si candiderà. Ma nessuno crede a queste promesse.

Anzi, lo sdegno dei congolesi si sta diffondendo un po’ ovunque e si è concretizzato in nuove manifestazioni organizzate dal Clc, a cui sono seguite anche nuove dure repressioni da parte degli uomini in divisa. Si calcolano almeno una quindicina di morti (a fine febbraio) e centinaia di feriti.

Una «barbarie» l’ha definita il cardinale di Kinshasa Laurent Monsengwo Pasinya. Che, dopo aver facilitato l’accordo di San Silvestro, ha usato parole durissime per designare una classe dirigente sempre più corrotta e arroccata al potere, nonché dedita al saccheggio sistematico delle risorse del Paese. «Un gruppo di mediocri che devono solo farsi da parte», aveva tuonato lo scorso gennaio il cardinale, accusato, di rimando, di essere un «golpista mancato», dal ministro dello Sviluppo rurale Justin Bitakwira, che aveva aggiunto sibillino: «Non si può permettere tutto in questo Paese…».

Ma non è il solo a scagliarsi con minacce e intimidazioni contro la Chiesa cattolica, che rappresenta oltre la metà della popolazione ed è l’unica istituzione a essere presente capillarmente su tutto il territorio nazionale, che neppure lo Stato controlla fino in fondo. Secondo la Conferenza episcopale sarebbe in corso una «campagna di screditamento e diffamazione», che si è tradotta anche in atti violenti, arresti di preti, danneggiamenti di chiese e saccheggi di strutture ecclesiastiche. A fine febbraio, un gruppo numeroso di sostenitori del presidente Kabila è arrivato a occupare ostilmente l’area antistante la cattedrale di Kinshasa. «Perché così tanti morti, feriti, arresti, rapimenti, attacchi a parrocchie e a comunità ecclesiastiche, umiliazioni, torture, intimidazioni, profanazioni di chiese, divieti di pregare?», si chiedono i vescovi.

Si tratta evidentemente di una domanda retorica: «La comunità nazionale e internazionale – dicono – è testimone di una serie di campagne d’intossicazione, discredito e diffamazione volta a indebolire la forza morale della Chiesa, e particolarmente del cardinale Monsengwo, e a distogliere l’attenzione della popolazione dai veri problemi».

Toni altissimi, insomma. Ma anche violenze che rischiano di diffondersi a macchia d’olio. Come in effetti sta avvenendo.

«Non siamo di fronte a un regime democratico; siamo di fronte a un regime dittatoriale – denuncia uno dei principali leader del Clc, il professor Thierry Nlandu Mayamba, docente di letteratura anglo-americana presso l’Università di Kinshasa -. Bisogna che il mondo se ne renda conto. Siamo di fronte a un regime che non ha nessun rispetto per la vita umana. Per questo noi andremo avanti sino alla fine. Ma quanti morti ci vogliono ancora prima che la comunità internazionale si renda conto che quello che sta succedendo in R.D. Congo è un vero dramma?».

Il Comitato laico di coordinamento dei cattolici si è ormai imposto sulla scena sociale e politica della R. D. Congo come il principale movimento di opposizione al regime. E proprio per questo ha ricevuto la sua dose di minacce e insulti: «Un movimento anarchico di stampo cristiano, che sotto una copertura angelica e di pietismo nasconde metodi anarchici», l’ha definito l’ex vice premier e ministro dell’Interno Emmanuel Ramazani Shadari.

Ciononostante, il Clc sta raccogliendo sempre più appoggio e consenso in ogni parte del Paese. In occasione della marcia dello scorso 25 febbraio, ad esempio, 152 associazioni della società civile hanno dato il loro sostegno al Comitato e hanno dispiegato quasi 1.700 “osservatori” in tutte le parrocchie di Kinshasa, per contrastare quello che definiscono un grave «deterioramento delle condizioni di esercizio dei diritti e delle libertà dei cittadini». Anche Jean-Paul Katende, presidente dell’Association africaine de défense des droits de l’homme (Associazione africana di difesa dei diritti dell’uomo, Asadho) stima che finché Kabila rimarrà al potere non ci potrà essere alcuna alternanza democratica: «La crisi politica attuale – sostiene – è creata dal Presidente e dalla maggioranza presidenziale in quanto non hanno rispettato i termini di mandato prescritti dalla Costituzione. E quando si guarda al processo elettorale così come lo si sta organizzando, siamo certi che non ci potranno essere elezioni o, se ci saranno, verranno organizzate a vantaggio della maggioranza».

Questa grave crisi politica va a sovrapporsi a tutta una serie di situazioni di conflitto, guerriglia, instabilità, tensioni etniche e ingerenze esterne che devastano diverse aree del Paese.

Attualmente la situazione più esplosiva è quella della regione dell’Ituri, al confine con Uganda e Sud Sudan, dove a inizio febbraio si sono riaccese tensioni identitarie mai del tutto sopite che hanno provocato centinaia di morti, la distruzione di decine di villaggi, scuole e ospedali e la fuga di oltre 200 mila sfollati. È un drammatico copione che si ripete e che aveva già provocato, tra il 1999 e il 2002, oltre 50 mila morti e mezzo milione di persone in fuga. Oggi di nuovo, «sono soprattutto donne e bambini a essere presi di mira», secondo la testimonianza del vescovo di Bunia, mons. Dieudonné Uringi. In un rapporto della Caritas locale si avanza il sospetto che dietro questi scontri all’apparenza interetnici si nascondano interessi politici, legati appunto a questa delicata fase del processo elettorale.

Anche le regioni del Nord e Sud Kivu faticano a trovare pace e stabilità dopo oltre due decenni di conflitto che ha provocato qui – più che in qualsiasi altra parte del Paese – milioni di morti e decine di migliaia di donne violentate. Ancora a fine febbraio si segnalavano 60 casi di stupri riscontrati nel giro di tre settimane nella zona di Masisi. Ma anche nuovi morti e feriti nella zona di Walungu in Sud Kivu o presso Goma, nel Nord, in cui sarebbero implicate milizie Mai Mai.

Ormai, però, in queste due regioni ricchissime di minerali e infestate da decine di gruppi armati, non si sa più chi combatte contro chi e per cosa. Se non per destabilizzare il territorio e permettere di continuare a sfruttare indisturbati le ingentissime risorse del sottosuolo. Del resto, anche l’esercito qui sembra essere più parte del problema che della soluzione. E lo stesso contingente Onu, presente con migliaia di uomini, è particolarmente inviso alla popolazione. Anche perché alcuni caschi blu sono stati coinvolti in traffici, volenze e stupri.

Infine, ma solo per citare le situazioni più gravi – nel Grande Kasai si fatica a riassorbire l’esplosione di violenza inaudita che, specialmente nei mesi centrali del 2017, ha visto scontrarsi l’esercito nazionale e un movimento di opposizione locale, provocando migliaia di morti, stupri di massa, bambini mutilati e quasi un milione e mezzo di sfollati. L’Onu – che ha perso anche due suoi giovani osservatori – ha scoperto una quarantina di fosse comuni. L’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr) ha parlato di «crimini contro l’umanità», ma anche di una delle crisi più dimenticate in assoluto al mondo.

«Di fronte a questo tipo di situazioni – afferma il presidente della Conferenza episcopale, mons. Utembi – non è facile promuovere la nonviolenza attiva, il dialogo rispettoso; non è facile sperare di vivere in pace. È in questo contesto che la Chiesa nella Repubblica Democratica del Congo cerca di svolgere il suo ruolo profetico per un popolo che aspira alla giustizia, alla pace, al benessere, alla riconciliazione, allo Stato di diritto». Una grande sfida che accompagnerà la Chiesa e la società civile lungo questo anno cruciale disseminato di molte insidie.