L’Africa dei golpe

L’Africa dei golpe

Si allunga drammaticamente la lista dei colpi di stato militari che stanno funestando l’Africa occidentale, facendola tornare a un tragico passato

Per chi pensa che l’Africa sia un continente di miserie e colpi di Stato, l’impressionante successione di golpe in Ciad, Mali, Guinea-Conakry, Sudan, Burkina Faso e Guinea-Bissau non può che consolidare il pregiudizio di conferma. Dietro allo stereotipo, però, c’è una realtà complessa e tragica con situazioni molto diverse tra di loro, vecchie e nuove rivalità, retaggi del passato e grandi nubi a oscurare il futuro.
Quel che è chiaro è che non solo l’Africa saheliana ma tutta la regione occidentale continua a vivere situazioni di fragilità e instabilità che spesso degenerano in violenze e che sempre rendono dura e drammatica la vita della gente.
Un altro elemento comune è il ricorso a teorie del complotto per gettare fumo negli occhi e mantenere nell’opacità – e nell’impunità – i responsabili. Secondo i militari che hanno preso con la forza il potere a Bamako nel maggio del 2021, dopo un altro golpe nell’agosto del 2020, i capi di Stato africani si farebbero «strumentalizzare da potenze extraregionali dai disegni occulti», a cominciare dalla Francia ovviamente, il cui ambasciatore è stato espulso con un preavviso di 72 ore lo scorso gennaio.

La presa di posizione forte dei Paesi della Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Cedeao/Ecowas), con la chiusura dei confini e le limitazioni negli scambi commerciali, non sembra tuttavia scoraggiare i colpi di Stato, né favorire una maggiore stabilità nella regione. Anche le minacce dell’Unione Africana di «non tollerare nessun golpe militare in qualsiasi forma si presenti» cadono troppo spesso nel vuoto.
Quello che invece lascia drammaticamente il segno in questa regione è la variegata presenza di gruppi jihadisti e sempre di più anche di miliziani/mercenari, come quelli del famigerato gruppo Wagner, “made in Russia”, che la giunta maliana pagherebbe 1,5 milioni di euro al mese, in un Paese dove la gente muore di fame. Già ampiamente e tristemente conosciuti in Repubblica Centrafricana – dove si sono resi responsabili di gravi crimini contro i civili – ora imperversano pure in Mali, mentre diminuisce la presenza militare francese, con tre basi chiuse al Nord e sempre meno militari dell’“operazione Barkhane”. L’intervento, promosso ben nove anni fa per contrastare il terrorismo islamista, dovrebbe concludersi «in modo ordinato», secondo le parole di Macron, nel primo trimestre di quest’anno, lasciando di fatto un Paese meno democratico di prima e più povero e destabilizzato che mai, con Al Qaeda e lo Stato Islamico che non nascondono le loro mire espansionistiche in tutta l’Africa Occidentale.

Ne sa qualcosa anche il vicino Burkina Faso che, dopo trent’anni di governo autoritario di Blaise Compaoré, ha cercato di costruire una fragile democrazia con la deposizione (quasi) pacifica di quello che era ritenuto uno degli ultimi “dinosauri” d’Africa (peraltro arrivato, pure lui, al potere con un golpe). In questi sette anni, però, questo delicato e zoppicante processo non ha retto alla pressione dei gruppi jihadisti che la fanno da padrone in vaste aree del Paese. E così, anche qui, sono tornati sulla scena i militari che hanno spodestato lo scorso 25 gennaio il presidente Roch Kaboré, al potere dal 2015. Difficile dire quale possa essere il futuro di questo Paese che era uno dei più stabili dell’Africa e che oggi si ritrova gravemente indebolito e decisamente allo sbando.
In Guinea-Bissau, invece, resta fumoso non solo il futuro, ma persino il recente passato, compreso il tentativo fallito di colpo di Stato dello scorso primo febbraio. Neppure il presidente Umaro Sissoko Embaló ha dato spiegazioni convincenti: c’è chi lo fa risalire alla pista del narcotraffico internazionale – di cui la Guinea-Bissau è diventata un crocevia africano -, chi al terrorismo islamista, anche se sembrerebbe alquanto improbabile. La Cedeao ha avanzato l’ipotesi di mandare nuovamente una forza di interposizione in questo piccolo Paese, che già in passato è stato funestato da quattro golpe riusciti e numerosi tentativi falliti e da una guerra civile che lo ha reso ancora più povero e arretrato, lasciando anche profonde fratture e tensioni sociali.
Il presidente Embaló se l’è presa persino con la Chiesa cattolica e in particolare con il nuovo arcivescovo di Bissau, monsignor José Lampra Cá, nominato da Papa Francesco lo scorso 10 dicembre. «La Guinea-Bissau non può essere felice se i suoi figli non collaborano, assumendosi anche la responsabilità di rispettare scrupolosamente le leggi del Paese», aveva dichiarato il vescovo a fine novembre, dopo aver incontrato, con agli altri leader religiosi guineani, il primo ministro. Non l’aveva presa bene il presidente che aveva reagito in modo molto duro: «Non so se il vescovo stia facendo politica. Quello che so è che il posto del vescovo è nella chiesa, quello dell’imam è nella moschea e quello del pastore nel suo luogo di culto. Ma se vuole fare politica che lo faccia sapere!», aveva dichiarato con toni ben poco concilianti.
È l’ennesima riprova dell’incapacità di molti leader di usare le armi del dialogo, preferendo quelle della guerra. Ma anche dell’inettitudine delle istituzioni internazionali e africane, che sembrano, oggi più che mai, inadeguate e impotenti di fronte a situazioni così complesse e drammatiche. MM