Etiopia senza pace

Etiopia senza pace

Il conflitto nella regione del Tigray, scoppiato a inizio novembre, ha provocato una crisi umanitaria catastrofica. E ha riaperto vecchie e nuove tensioni, che rischiano di esplodere anche a livello regionale

 

Una guerra a dir poco “opaca”. Una guerra di cui non è filtrato niente dal terreno: nessuna notizia giornalistica e pochissimi frammenti di voci indipendenti. Un mese di conflitto e tanti punti di domanda. Su quello che è successo e su quello che potrebbe succedere.

Di certo, quello che è accaduto nella regione del Tigray, a nord dell’Etiopia, a partire dal 4 novembre, è un pessimo segnale. Non solo perché ha provocato morti, sfollati e una crisi umanitaria immane in una terra già segnata da ricorrenti carestie, aggravate dai cambiamenti climatici e dall’invasione delle locuste. Ma anche perché apre un fronte di instabilità in un Paese, l’Etiopia, e in una regione, quella del Corno d’Africa, che arrancano faticosamente lungo percorsi di sviluppo e pacificazione che, regolarmente, sono segnati da drastici punti di arresto. Se non da veri e propri passi indietro.

«Il rischio ora è che la crisi si incancrenisca e porti a una serie di reazioni a catena», commenta Mario Raffaelli, attuale presidente di Amref Italia, ex sottosegretario agli esteri e inviato del governo italiano per il Corno d’Africa. Raffaelli conosce bene la regione, le sue dinamiche, i punti di forza e le molte fragilità. Conosce bene anche le genti fiere di questa terra. A cominciare dai tigrini, che oggi si trovano di fronte a una nuova grande sfida. Una sfida per «preservare la nostra esistenza», dicono i leader del Fronte popolare di librazione del Tigray (Fplt). Certamente per il potere.

Ma che cosa è successo in Etiopia? «Il premier Abyi Ahmed, arrivato ai vertici del governo nel 2918, ha sicuramente rotto degli equilibri – analizza Raffaelli -. E i tigrini sono stati presi un po’ di sorpresa. Le tensioni sono cominciate subito. Specialmente quando Abyi ha messo mano all’esercito e ai servizi di sicurezza, togliendoli al tradizionale controllo dei tigrini. Il fuoco covava sotto la cenere già da molto tempo».

A far esplodere il conflitto hanno contribuito due eventi: il primo, lo scorso settembre, l’elezione dell’amministrazione regionale del Tigray, che il governo federale di Addis Abeba aveva chiesto di posticipare a causa della pandemia di Covid-19. Ma l’Flpt ha deciso di tenere comunque le elezioni che ha vinto con il 98 per cento dei voti. «Un governo considerato illegittimo del premier – spiega Raffaelli -. Che però è accusato, a sua volta, di non essere legittimo, dal momento che ha rinviato le elezioni e, lui stesso, non è mai stato eletto».

Il secondo fattore decisivo, però, è quello militare. Secondo fonti di Addis Abeba, l’Flpt avrebbe attaccato una base dell’esercito federale. E la reazione del premier è stata durissima: dichiarazione dello stato di emergenza nella regione il 4 novembre e intervento massiccio delle forze di terra e aeree. Sino alla “conquista” della capitale del Tigray, Macallè – città di oltre 500 mila abitanti – lo scorso 28 novembre.

Il tutto, accompagnato da una “macchina della propaganda”, molto efficace dall’una e dall’altra parte. E che è rimasta l’unica voce di un conflitto blindatissimo, di cui non è filtrata neppure un’immagine. «Questo la dice lunga anche sui sistemi di controllo delle telecomunicazioni», insiste Raffaelli. Che teme scenari di instabilità che si protrarranno a lungo. «È chiaro che in una guerra convenzionale non c’è partita – spiega -. L’esercito federale dispone di uomini e mezzi infinitamente superiori rispetto a quelli dei miliziani tigrini: ha un’aviazione e un potere di fuoco tali da permettergli di occupare le città senza troppe difficoltà. Poi, controllarle è un altro discorso. Pare sia stato supportato anche da nuove tecnologie, come i droni messi a disposizione dai Paesi del Golfo. D’altro canto, i tigrini sono stati protagonisti di 17 anni di lotta contro il dittatore Menghistu Hailè Mariàm. Conoscono le tecniche di guerriglia e il territorio montagnoso della loro regione. Dispongono di circa 250 mila uomini e hanno un forte senso identitario. Temo che cambierà la natura della guerra».

Non solo, però. La crisi nel Tigray potrebbe portarsene appresso anche altre. L’Etiopia è un Paese in continua ebollizione, con istanze etniche e rivendicazioni sociali che regolarmente riesplodono, provocando violenti scontri.

L’arrivo al potere di Abyi Ahmed, giovane leader oromo di 44 anni, madre cristiana e padre musulmano, sposato con una donna ahmara, aveva suscitato grandi speranza. Prendendo il posto del suo debole predecessore Hailé Mariàm Desalegn (dimissionario dopo tre anni di violente proteste), aveva fatto intravvedere la possibilità di aprire una pagina nuova della storia dell’Etiopia: più inclusiva al suo interno, più ambiziosa a livello regionale e internazionale. Ma dopo i primi passi molto incoraggianti – e dopo il clamoroso Premio Nobel per la pace per aver messo fine al ventennale conflitto con l’Eritrea – molti nodi sono arrivati rapidamente al pettine.

Innanzitutto, era parsa ben presto evidente l’ostilità dell’élite dei tigrini, che rappresentano il 5 % dei 109 milioni di abitanti del Paese: un’etnia che, di fatto, ha sempre controllato il potere e che con Abiy era stata messa decisamente da parte. D’altro canto, però, le speranze degli oromo – tradizionalmente marginalizzati dal punto di vista economico, politico e socio-culturale – non avevano trovato soddisfazione. Al punto che, l’uccisione di un famoso cantante oromo, Hachalu Hundessa, a fine giugno del 2020, è diventata il pretesto per violentissimi scontri sia nella capitale Addis Abeba, con un centinaia di morti, sia in altre aree del Paese, con morti e feriti, devastazioni e saccheggi. A inizio novembre, sono stati invece gli stessi oromo a rendersi responsabili del massacro 54 persone dell’etnia amhara. E ora, sulla scia di quanto accaduto in Tigray, potrebbero riemergere proteste e focolai di crisi anche in altre parti del Paese. Ma potrebbero esserci ripercussioni persino in tutta la regione del Corno D’Africa, visto che l’Etiopia ha già aperto un contenzioso con Sudan e soprattutto Egitto per la gestione delle acque del Nilo Azzurro. E le relazioni con la Somalia sono sempre critiche.

«Tutti i processi di transizione sono molto difficili – analizza Raffaelli – specialmente quando si passa da un sistema autoritario, oppressivo ma che funziona, a un sistema più democratico. Tutte le contraddizioni che sono state tenute soffocate si liberano e bisogna saperle gestire. Si è visto da sempre nei processi di decolonizzazione che hanno provocato fratture gravi e durature. Vanno gestite con cautela, altrimenti esplodono. E si rischia che, dopo prima fase di tentativi di democratizzazione, si torni ai metodi violenti di sempre».

È quanto si è visto in tutta la sua drammaticità nel Tigray, dove più di tre settimane di aspri combattimenti avrebbero provocato migliaia di morti «tra cui molti civili e forze di sicurezza», secondo l’ong International Crisis Group, il cui analista senior è stato espulso dall’Etiopia senza formali spiegazioni, così come un giornalista del Guardian.

Ancora poco chiara è la dinamica della strage che sarebbe stata commessa tra Mai Kadra e Humera il 10 novembre. Alcune testimonianze, raccolte da Amnesty International, parlano di oltre 600 morti, la maggior parte contadini di etnia amhara, massacrati con machete e armi da fuoco. Si tratterebbe di una sorta di rappresaglia di miliziani tigrini per “vendicare” le violenze dei militari contro la loro popolazione. Quel che è certo è che sono state scoperte 70 sepolture fresche, fra cui anche alcune fosse comuni.

Per il resto, a causa del totale oscuramento delle comunicazioni, filtrano pochissime notizie verificabili. Solo il Comitato internazionale della Croce Rossa, che opera sul posto, è riuscito a far arrivare alcune testimonianze. In particolare, quelle relative all’ospedale di riferimento di Ayder a Macallè, dove «l’80% dei pazienti aveva ferite da trauma» e tutti i servizi erano stati ridotti o sospesi «in modo che il personale e le risorse limitati potessero essere dedicati alle cure mediche di emergenza». La struttura, tuttavia, si trovava al limite delle sue capacità, per mancanza di approvvigionamento. In un tweet del 29 novembre, la responsabile della croce Rossa in Etiopia, Maria Soledad, lanciava l’allarme: «L’ospedale va verso una pericolosa carenza di forniture mediche: antibiotici, anticoagulanti, antidolorifici e persino guanti».

«Se c’è una cosa certa riguardo al conflitto in Tigray è la drammatica crisi umanitaria che ha provocato», commenta Raffaelli. Le agenzie dell’Onu hanno riportato di oltre 45 mila persone fuggite oltre il confine con il Sudan e molte di più sfollate all’interno della regione, senza vie di fuga neppure verso l’Eritrea, schierata dalla parte di Abyi e con le frontiere chiuse. Nel Tigray, inoltre, sono presenti quattro campi con 96 mila rifugiati eritrei. Secondo l’Unicef, almeno 2,3 milioni di bambini sarebbero bisognosi di aiuti umanitari urgenti. Ma «il blackout delle comunicazioni e le restrizioni imposte agli spostamenti nella regione del Tigray impediscono di raggiungerli», ha denunciato la direttrice generale Henrietta Fore. Che ha chiesto, come molti altri, l’apertura di corridoi umanitari.

La situazione potrebbe precipitare anche per il venir meno dei raccolti a causa del conflitto, in un periodo in cui la produzione agricola è già stata fortemente compromessa dall’invasione delle locuste e dalle misure di contenimento della pandemia di Coronavirus.«La guerra in Etiopia è finita», ha dichiarato il premier Abyi all’indomani della presa di Macallè. Ma forse no.