Kenya. I poveri che attendono Francesco

Kenya. I poveri che attendono Francesco

In attesa dell’atterraggio di Papa Francesco a Nairobi, padre Kizito Sesana, missionario comboniano che vive in questa città da quasi trent’anni, interpreta aspettative e sfide di questo viaggio. Per il Papa, ma soprattutto per il Kenya e la sua Chiesa

Missionario comboniano, padre Renato Kizito Sesana, ha un’esperienza di quasi trent’anni in Kenya, nelle periferie non solo geografiche ma soprattutto umane della grande capitale Nairobi. Una città dove si incontrano e talvolta si scontrano mondi diversi, dove ricchi e poveri vivono fianco a fianco, dove differenze e ingiustizie sono tanto eclatanti quanto scioccanti. Soprattutto se questi mondi vengono guardati dal gradino più basso di una piramide che si assottiglia sempre di più verso una piccola élite che detiene il potere economico e politico. Il gradino più basso sono i bambini di strada. Maschi e femmine, che trascinano le loro esistenze in una condizione di miseria e abbandono. Sono circa 50 mila nella sola città di Nairobi. A loro padre Kizito ha consacrato gran parte delle energie e della sua missione.

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Padre Kizito e i ragazzi del Kivuli Centre con Papa Francesco

Vista dal Kivuli Centre – uno dei centri per bambini di strada creati nelle aree più povere di Nairobi – cosa rappresenta la visita di Papa Francesco in Kenya?

Penso innanzitutto che aiuterà a ricostruire un senso di unità nel Paese, come hanno detto anche i vescovi. In questi anni si sono molto accentuate le divisioni, per varie ragioni: politiche, ma anche etnico-religiose. Tante fatture, esacerbate da una situazione politica non favorevole, dalle diatribe sempre più violente tra i partiti e dai continui scandali di corruzione. Ma anche da un contesto internazionale non facile, soprattutto per quanto riguarda le relazioni con la Somalia. Qui, infatti, opera il gruppo terroristico Al Shaabab, che sarebbe responsabile anche della strage all’università keniana di Garissa, lo scorso aprile, che ha provocato 148 morti tra gli studenti. Devo dire che la maggior parte della gente ha cercato di “riassorbire” questo enorme trauma con molta semplicità. Ma c’è anche chi soffia su queste divisioni “religiose”, per motivi politici e di potere. Questo, dunque, mi aspetto dal Papa, così come molte altre persone: che contribuisca a risanare queste fratture e che insista molto sul perdono e sulla necessità riallacciare le relazioni che si sono spezzate.

Quali sono, a suo avviso, i momenti più significativi di questa visita?

Per quanto mi riguarda, certamente la visita allo slum di Kangemi. Rappresenta l’incontro con i poveri. Anche se non escludo che Papa Francesco possa fare anche qualche altro gesto “forte” in questo senso. Lui ci ha abituato alle sorprese. Penso ad esempio alla comunità delle suore di Madre Teresa a Kuruma, che accoglie veramente gli ultimi della terra. Ma anche solo la visita a Kangemi è già di per sé di grande importanza e significato. Spero che Papa Francesco dica parole forti sulla povertà, le ingiustizie e le contraddizioni, che a Nairobi sono forse più visibili che in qualsiasi altra città al mondo: grattacieli che svettano accanto a enormi baraccopoli, due mondi, due economie che vivono l’una accanto all’altra, separate in modo nettissimo. Il Papa non esita a mescolarsi ai poveri e a denunciare le vittime di queste gravi ingiustizie sociali. È un messaggio importante non solo per i politici, ma anche per la Chiesa, che deve, a mio avviso, recuperare maggiormente questa dimensione.

Da Kangemi all’Onu. Anche questo un contrasto forte…

A Nairobi hanno sede due importanti agenzie dell’Onu. Penso che il Papa ripeta i temi che ha trattato al Palazzo di vetro di New York, calandoli di più nella realtà africana. Sono tante le questioni: dalla povertà alle sperequazioni, dal land grabbing alle guerre. C’è bisogno di condanna, ma anche di responsabilità, soprattutto nei confronti della violenza dilagante. Penso non solo alle situazioni di conflitto, ma a tutti quei contesti in cui si è diffusa e consolidata una vera e propria cultura della violenza. Situazioni che sfuggono a definizioni precise, ma che si sono radicate ed esacerbate in diversi contesti africani, rendendo impossibile una vita pacifica e dignitosa per la gente. Ma vorrei che all’Onu Papa Francesco sottolineasse anche la differenza tra la Chiesa e l’umanitario; il modo in cui la Chiesa è in queste situazioni di povertà e violenza è diverso da quello delle ong. La Chiesa è al servizio della gente e portatrice di tutt’altra visione e speranza.

A proposito di Chiesa, quale comunità cristiana troverà in Kenya?

Penso che la Chiesa keniana abbia bisogno di recuperare semplicità e contatto diretto con la gente, soprattutto da parte dei leader. Recuperare l’ascolto. Anche come missionari abbiamo forse insistito troppo su una Chiesa che insegna piuttosto che su una Chiesa che partecipa, condivide, sta in mezzo. Il rischio è di farla sentire lontana dalla gente. Spero che Papa Francesco sarà capace di dare e ricevere molte sollecitazioni e di presentare una Chiesa che sia molto più parte della storia dei popoli. I giovani, in particolare, hanno bisogno di una Chiesa che gli viva accanto. Hanno bisogno di ascolto.

L’incontro con i giovani sarà appunto uno dei momenti più intensi della visita…

È quello che auspico. Il Kenya, come tutti i Paesi africani, è una nazione giovane. Ma i ragazzi devono affrontare grandi sfide: il lavoro, la casa, la creazione di una famiglia, una vita minimamente dignitosa. Hanno il problema di costruirsi un futuro e sono lasciati spesso soli. Quando escono dalle scuole, anche da quelle cattoliche, e devono costruirsi una vita, non trovano iniziative nella Chiesa che possano farli sentire accompagnati. Ma se non ci facciamo carico del loro futuro, anche noi, come Chiesa, rischiamo di perdere il nostro.

Ci sono timori per la sicurezza?

È un tema rilevante, inutile nasconderlo. La visita di Obama in Kenya, lo scorso luglio, è stata preceduta da tre mesi di operazioni delle forze di sicurezza americane. E, nonostante il clamore mediatico, Obama è stato vissuto dalla gente come qualcosa di molto lontano. Il Papa avrà certamente comportamenti molto diversi, saranno più visibili e intuibili da tutti, il rapporto con la gente si giocherà su un piano di maggiore vicinanza. È quello che tutti si aspettano; e sarà un messaggio molto bello e forte, dirà la possibilità di una relazione diversa con l’autorità. Ma questo, certo, pone anche un problema di sicurezza, per nulla scontato in un Paese come il Kenya.