Morire di carcere

Morire di carcere

Nella prigione di Garoua l’incursione delle forze dell’ordine ha provocato molti morti e feriti. Ma c’è anche chi cerca di portare rispetto e dignità in una situazione di violenza e abbandono

 

Il gran caldo, il sovraffollamento, la mancanza d’acqua e d’aria. La chiamano reclusione, ma somiglia di più alla tortura. Se non a una vera e propria pena di morte. Che non viene più eseguita ufficialmente, ma diventa spesso una tragica “ricorrenza” nelle carceri del Camerun.

È quanto successo recentemente a Garoua, nel Nord del Paese, una prigione di epoca coloniale costruita per 500 persone e stipata di oltre 1.700 prigionieri. Molti in detenzione preventiva e in attesa di una sentenza che magari non avranno mai.

Lo scorso marzo, al picco della stagione secca, con le temperature che superavano i 45 gradi, l’ennesimo prigioniero è deceduto per soffocamento nella cella di massima sicurezza, prevista per 4-5 persone e ingombra di oltre 20 detenuti. Ma anche nel resto della prigione, molti carcerati lamentavano condizioni intollerabili di vita, specialmente di notte con le celle chiuse e le temperature roventi.

Esasperazione e proteste sono degenerate in atti di violenza, per sedare i quali il responsabile della prigione ha chiesto aiuto al governatore. Che ha pensato bene di far intervenire le forze dell’ordine, compreso il corpo speciale dei Bir, quello che dovrebbe combattere Boko Haram. «Non volevano che si venisse a sapere delle condizioni della prigione, per questo sono venuti e sono entrati e poi hanno iniziato a sparare, persino nelle celle. Si sono piazzati davanti alle porte e hanno cominciato a esplodere colpi. Uno è morto lì dentro sul colpo, mentre nel settore dei minori tre sono stati colpiti da pallottole, ma per fortuna non sono morti. È successo di fronte a me, prima che mi portassero al commissariato centrale e mi rinchiudessero là dentro». È la drammatica testimonianza di un detenuto, riuscito miracolosamente a contattare un membro della Commissione giustizia e pace della Conferenza episcopale del Camerun, David Bayang, che collabora anche con Cam to Me onlus della Comunità missionarie laiche del Pime (Cml). L’associazione sostiene da otto anni un progetto di alfabetizzazione (e non solo) proprio nel carcere di Garoua. David ha registrato il colloquio, unica testimonianza di una vera e propria carneficina. Non ci sono bilanci ufficiali. Si parla di 5 morti durante l’incursione, ma altri prigionieri molto gravi potrebbero essere deceduti successivamente. Quasi 120 sono rimasti feriti.

«Due di loro – conferma il detenuto – sono stati trasferiti con me a Tholliré e sono morti qui. Uno aveva un proiettile in testa, il secondo è stato picchiato dalle guardie. Perché quando gli altri sono usciti, le guardie hanno cominciato i loro regolamenti di conti. Hanno fatto uscire alcuni dalle celle e hanno cominciato a picchiarli. Hanno rotto mani e piedi. Alcuni che adesso sono qui hanno ferite profonde alla testa, i piedi, le braccia, dappertutto. Qui ci sono almeno cinque casi gravi. Ce n’era uno che era stato colpito da un proiettile, che ha trapassato il petto ed è uscito dalla schiena. Lo hanno portato altrove».

Ora questo detenuto è stato trasferito insieme ad altri nel carcere di Tholliré, più a Sud, tristemente famoso per le condizioni di vita particolarmente dure; altri sono stati portati a Guider, più a Nord. «Mi hanno portato al commissariato centrale, in un primo tempo: mi hanno rinchiuso in una cella, senza niente, solo un po’ d’acqua. Non si respirava. Non volevano che restassi nella prigione, perché non volevano che vedessi cosa stava succedendo. Sapevano che avrei parlato. Così mi hanno portato via senza niente. Non mi hanno permesso di prendere le mie cose. Non ho niente, neppure cinque centesimi!», si lamenta.

«Nel profondo delle poche celle che compongono la prigione di Garoua, ci sono vite perdute, rotture familiari insopportabili, equilibri sociali bruciati». Lo racconta Gabriella Lorenzi, della Cml, che ha vissuto 12 anni a Garoua, dove ha collaborato con David Bayang, responsabile del progetto-prigioni. «Le diverse azioni intraprese nel cuore del carcere – conferma David – hanno svelato un contesto di indigenza e sofferenza, specialmente tra le donne e i minori. Ma anche di indifferenza da parte di chi sta fuori. Nell’ascolto di questi esclusi della società che languono nell’isolamento delle loro celle, si scopre una grande angoscia e preoccupazione: per se stessi, per le famiglie, per il loro futuro». La maggior parte ha perso tutto: lavoro, legami familiari, una prospettiva di libertà. Anche perché dentro la prigione spesso passano intere giornate nell’inedia: niente attività, niente stimoli, una vita vegetativa. Molti, poi, non hanno alcuna istruzione. «In media, nelle prigioni del Camerun – precisa David – il 70% dei detenuti non sa né leggere né scrivere. Per questo abbiamo promosso un progetto di alfabetizzazione che portiamo avanti da più di otto anni: per dare una seconda possibilità agli adulti, ma soprattutto ai bambini. Molti di loro, infatti, hanno abbandonato la scuola e sono finiti a vivere in strada. Hanno così iniziato a rubacchiare in qualche negozio o abitazione e alla fine si sono ritrovati in prigione, spesso abbandonati da tutti».

Il progetto coinvolge un centinaio di ragazzini su quattro livelli. E non si limita solo all’alfabetizzazione. L’associazione cerca di migliorare le condizioni igieniche del carcere e aiuta le famiglie ad assistere i parenti, che altrimenti avrebbero a malapena di che mangiare. Inoltre, fornisce un supporto giuridico ai detenuti più poveri, alcuni dei quali – più di 300! – sono stati sbattuti dentro per mancanza di carta di identità. «A causa dei problemi di insicurezza provocati dalla presenza di Boko Haram anche in Camerun – spiega David – la polizia è diventata sempre più intransigente. Ma spesso a farne le spese sono i più poveri che non possono permettersi neppure di fare una carta d’identità». «Noi però non ci arrendiamo – conclude Gabriella – perché crediamo che anche i detenuti abbiano diritto a un trattamento umano e rispettoso della loro dignità. Una cosa fondamentale, ma per nulla scontata, come dimostrano in maniera drammatica i fatti successi negli scorsi mesi».