Sudafrica, liberi e diseguali

Sudafrica, liberi e diseguali

A trent’anni dalle prime elezioni libere, il Sudafrica si avvia verso il voto di fine maggio, che potrebbe riservare qualche sorpresa. «Nel Paese ci sono ancora troppe disparità», testimonia lo scalabriniano Filippo Ferraro. Guarda la puntana di FINIS TERRAE o ascolta il nostro PODCAST

Quando sono arrivati in Sudafrica si cominciava a respirare quel “vento di libertà” per cui generazioni di neri avevano lottato e pagato un caro prezzo. Da allora i missionari scalabriniani, giunti nel luglio 1994 a Città del Capo, hanno accompagnato il faticoso cammino di riconciliazione e di progresso in termini di diritti e opportunità, uguaglianza e pace sociale che non è ancora terminato. Anzi! «A trent’anni di distanza – ci dice padre Filippo Ferraro – molte conquiste scritte sulla carta non si sono tradotte in migliori condizioni di vita soprattutto per la popolazione nera o per le fasce più svantaggiate della società, come ad esempio i migranti».

Originario di Bassano del Grappa, 50 anni, padre Filippo è arrivato nel 2014 a Città del Capo, dove è cappellano degli italiani e direttore del Centro studi dei missionari scalabriniani: un luogo di eccellenza non solo per le attività di ricerca, ma anche per il lavoro di advocacy dedicato in particolare alle questioni migratorie che rappresentano una cartina di tornasole per rileggere tante situazioni e tante linee di frattura che continuano ad attraversare la poliedrica società sudafricana. «La cosa più difficile è dire chi è il sudafricano oggi, in un Paese in cui sono riconosciute undici lingue ufficiali e c’è una mescolanza di popoli straordinaria, ma anche estremamente complessa e talvolta conflittuale».

Gli stessi missionari scalabriniani sono arrivati a Città del Capo su invito dell’allora arcivescovo Henry Lawrence per seguire la comunità portoghese e quella italiana e per occuparsi della cura pastorale delle genti del porto, provenienti da tutto il mondo. E di farlo a partire dalla canonica e dalla chiesa di Holy Cross, nel District Six, il quartiere più multietnico di Città del Capo che venne raso al suolo negli anni Sessanta da parte del regime dell’apartheid, incapace di “gestire” secondo i folli criteri della segregazione razziale quella comunità così mista e cosmopolita, interculturale e interreligiosa. «L’arci­vescovo Lawrence ci ha voluti proprio lì perché la nostra presenza fosse significativa accanto a persone sfollate che avevano perso tutto, le loro case e le loro famiglie».

I primi missionari, del resto, erano anche loro migranti figli di migranti: brasiliani di passaporto, portavano nomi che tradivano la loro origine italiana, come padre Mario Zambiasi, padre Sergio Durigon e padre Mario Tessarotto. «Si devono in particolare a quest’ultimo la realizzazione dello Scalabrini Centre per rifugiati e richiedenti asilo proprio nel cuore di Città del Capo e la Lawrence House per minori in difficoltà – fa notare padre Filippo -. È stato un pioniere capace di guardare avanti in un tempo di emergenza dovuta in particolare all’arrivo di migliaia di profughi angolani che avevano bisogno di tutto».

Da allora il fenomeno migrato­­rio – che ha segnato peraltro tutta la storia del Sudafrica – si è ulteriormente ampliato a causa di sempre nuovi arrivi: da un lato, lavoratori del Mozambico e di Paesi limitrofi impiegati e spesso sfruttati soprattutto nelle miniere; dall’altro, profughi di varie guerre e situazioni di crisi in altre regioni del continente, dalla Repubblica Democratica del Congo alla Somalia, sino all’Africa occidentale, e così via.

Davvero il Sudafrica è un “Paese arcobaleno” non solo per le sue numerose etnie ma anche per le variegate presenze straniere: più di 3 milioni di persone su una popolazione di 60 milioni. Circa 320 mila sono rifugiati o richiedenti asilo. In molte circostanze, tuttavia, soprattutto negli ultimi anni, la carta dell’odio xenofobo è stata giocata pericolosamente da vari esponenti politici, alimentando tensioni e fomentando talvolta anche violenze e scontri con morti e feriti.

«Il Sudafrica è una terra di contraddizioni, una terra che ha sofferto molto e nella quale la presenza dei migranti è un tema sensibile – analizza padre Filippo -. C’è un malessere sociale diffuso: la situazione economica è precaria, la disoccupazione dilagante, ci sono troppe diseguaglianze, i sistemi educativo e sanitario non funzionano adeguatamente e le infrastrutture sono carenti. Ma invece di prendersi le proprie responsabilità e trovare soluzioni ai problemi alcune fazioni politiche hanno manipolato il sentimento anti straniero. Qui parliamo di afro-fobia, e non è una questione di razza. Il discorso sulle migrazioni è stato molto strumentalizzato a livello politico, specialmente prima delle elezioni o di importanti avvenimenti».

Di fatto, la presenza dei migranti e le istanze che essi pongono hanno spesso fatto emergere con più evidenza le fragilità di un sistema che non è riuscito davvero a creare pari opportunità per tutti e a mitigare le diseguaglianze. Il Sudafrica resta il Paese più diseguale al mondo, con il gap più ampio tra una piccolissima élite (spesso di bianchi) molto ricca e una grande fetta della popolazione (quasi sempre nera) che continua a vivere in immense township in condizioni di grave povertà e senza servizi. In più, ad aggravare la situazione in questi anni di governi non proprio illuminati e ostaggio delle diverse correnti dell’African National Congress (Anc) – il partito di Nelson Mandela segnato oggi da profonde divisioni – va aggiunta la diffusa corruzione.

«In questo periodo pre-elettorale sento commenti contrastanti – dice padre Filippo -: molti di delusione e disillusione, ma anche di speranza. Tutti si aspettano che il dominio monocolore dell’Anc venga ridimensionato. Il partito ha sempre avuto numeri altissimi e dunque la maggioranza assoluta in Parlamento, anche se è un po’ calato nelle ultime elezioni. Questo ha impedito di avere un reale dibattito politico. Se scendesse sotto la soglia del 50%, come molti si aspettano, allora si apriranno nuovi scenari. Non per forza porteranno immediatamente benessere per tutti, ma alcune istanze non potranno più essere ignorate. Purtroppo, negli ultimi anni, i problemi e le dispute del partito sono diventati i problemi e le dispute del Paese. Tutte le correnti volevano la loro fetta di potere e questo ha fatto sì che le riforme che andavano fatte non sono mai state portate a compimento».

«Ancora oggi è difficile parlare di pari opportunità», insiste il missionario, toccando un punto cruciale anche per il futuro del Sudafrica, che vuole rimanere un Paese-faro per tutto il continente. «Innanzitutto non esistono pari opportunità nell’accesso all’istruzione. A mio parere, è la questione più critica. In questi trent’anni di democrazia non si è investito abbastanza nell’educazione primaria. E questo aumenta anche le diseguaglianze economiche e la forbice tra chi sta bene e chi non può permettersi quasi niente. Inoltre contribuisce ad accentuare atteggiamenti di insofferenza, frizione e divisione nella società sudafricana».

E il processo di riconciliazione? «È stato fatto molto nei primi anni, ma poi non è stato adeguatamente portato avanti in maniera capillare e dove serviva veramente. La società sudafricana continua a essere traumatizzata. Ancora oggi parlo con persone di una certa età, per le quali, nonostante questi trent’anni di democrazia, è come se non fosse mai cambiato nulla. Ma anche per le giovani generazioni, che non hanno vissuto il tempo dell’apartheid, non è un processo automatico, chiede accompagnamento e chiede maturità. Purtroppo non è facile se il livello di istruzione resta basso e se non ci sono persone preparate per portarlo avanti con competenza. Anche all’interno della Chiesa non è scontato parlare di riconciliazione. Si ha paura di scoperchiare vecchie e nuove ferite e di far scoppiare una “bomba” che poi non si è in grado di governare. Ma sarebbe sciocco e anacronistico pensare di cancellarle con un colpo di spugna. Non so quanto ci vorrà ancora, ma sono convinto che si debba ricominciare innanzitutto dall’educazione».