L’Amazzonia della corsa alla terra

L’Amazzonia della corsa alla terra

La battaglia di padre Sisto Magro a fianco dei piccoli contadini dell’Amapà: «Il Sinodo voluto dal Papa arriva per chiederci: di fronte ai lupi che depredano i poveri tu da che parte stai?»

 

«Quando la guardi dall’aereo la foresta sembra intatta. Ma in molti posti hanno lasciato solo la cupola dell’albero, sotto è pieno di buchi. Per vedere come stanno le cose devi scendere a terra…». La conosce come pochi altri la terra dell’Amapá padre Sisto Magro, 55 anni, trevigiano, missionario del Pime in Brasile. Il suo sguardo è quello di chi vive fianco a fianco con i piccoli contadini che cercano di difendersi dall’assalto sempre più violento delle grandi aziende che pensano solo a monetizzare le ricchezze dell’Amazzonia. Ed è con lui che proviamo ad affrontare uno dei temi che saranno al centro del Sinodo in programma ormai tra poche settimane in Vaticano: la sfida di un’alleanza vera tra l’agricoltura e la foresta.

Padre Sisto, com’è nato il suo impegno nella Pastorale della terra?

«Vivo in Amapá dal dicembre 1989, per diciassette anni ho lavorato nella parrocchia di Porto Grande. Visitavo le comunità dell’interno e mi sono imbattuto negli insediamenti aperti negli anni Novanta dal governo Cardoso. La logica era: prendiamo un grande appezzamento di terreno nella foresta e lo diamo a 100 o 200 famiglie senza terra. Peccato fosse sempre in zone dove non esistevano strade e infrastrutture. Io arrivavo in questi posti a dire la Messa e mi imbattevo in questa gente abbandonata da tutti. Così nel 2007 ho chiesto al Pime di potermi dedicare a loro, lavorando con la Pastorale della terra, che era già una realtà strutturata».

Chi sono questi agricoltori?

«La maggior parte non sono dell’Amapá, sono arrivati dal Pará o dal Maranhão attratti dalla promessa del governo secondo cui ci sarebbero state terra e possibilità per tutti. Ma era un imbroglio. O tu mi fai anche la strada per arrivare al terreno oppure non può funzionare. Già dall’inizio la maggior parte del riso prodotto marciva perché i camion non riuscivano a portare via il raccolto. Ed è ancora così, manca tutto: la scuola arriva solo fino alla quarta elementare, i distretti sanitari sono senza dottori e medicinali. La gente si demoralizza, resta chi non sa proprio dove andare. Questo non è sviluppo, è solo propaganda».

Così oggi al posto dei poveri negli insediamenti arriva l’agrobusiness?

«No, gli insediamenti non interessano nemmeno a loro: sono troppo isolati. Come pure le comunità indigene: in Amapá vivono tutte in aree demarcate, lì le imprese non possono entrare. Il problema riguarda invece i caboclos, i meticci che da generazioni coltivano terre mai ufficialmente riconosciute. Lo Stato oggi cerca di assegnarle alle imprese, dicendo che portano lavoro, sviluppo, modernità. L’Amcel, una grande azienda della cellulosa legata al gruppo giapponese Nippon Papers Industries, ha in mano qualcosa come 300 mila ettari di terreni. E poi ci sono le grandi coltivazioni di soia, aperte da aziende del Sud del Brasile. Tutte iniziative che generano solo conflitti con le popolazioni locali dal momento che lo Stato fa letteralmente carte false a favore di queste imprese».

Voi come Pastorale della terra cercate di difendere i diritti di questi contadini anche nei tribunali.

«Nel 2009 sono cominciate le azioni giudiziarie della multinazionale giapponese contro diverse famiglie di piccoli agricoltori. I giudici non tengono conto della situazione, mandano via gente che vive da trenta, quaranta o cinquant’anni in un posto. Sono già 200 le famiglie che hanno perso la terra per via di documenti molto dubbi ottenuti dall’organo delle terre dell’Unione federale. Almeno un paio di volte al mese sono in tribunale con questa gente. Senza soldi possono difendersi solo con gli avvocati d’ufficio che spesso non conoscono nemmeno il diritto agrario. Però alcune cause le abbiamo vinte. Non tanto contro l’Amcel, la multinazionale della cellulosa, ma contro le imprese della soia. I procuratori federali sono entrati in pieno in queste cause, scoperchiando la pentola delle concessioni. Ma la situazione resta comunque critica».

Il Papa parla di ecologia integrale: è la strada che può salvare l’Amazzonia?

«Le popolazioni locali l’ecologia integrale l’hanno sempre praticata. È un’agricoltura che rispetta l’ambiente: le loro case sono in legno ma la foresta è ancora tutta lì. Se invece lasci entrare le imprese loro guardano l’albero e pensano solo a quanti soldi possono mettere in tasca. Il Papa dice: i beni naturali sono doni del Signore; usiamoli per la nostra sopravvivenza nel rispetto della natura, del prossimo e anche di noi stessi. Ed è la stessa logica del piccolo contadino che sa bene che la morte della foresta è anche la sua».

Che cos’ha imparato vivendo accanto a queste famiglie?

«Ho fatto fatica a inserirmi nella loro mentalità. Ancora oggi a volte fatico. Per esempio l’accoglienza loro ce l’hanno nel sangue: “Se ci sto io ci sta anche lui”, dicono; anche a costo di essere ingannati. E poi la gratitudine nei confronti della vita: molte volte noi presentiamo una religiosità teorica, razionale. Loro sono molto più istintivi, molto più semplici: tu prega, chiudi gli occhi, vedrai che il Signore ti aiuta. Questo tipo di sensibilità è bella, anche se può avere dei risvolti negativi. Mi hanno insegnato ad andare oltre le mie sicurezze: vai a dire Messa in una comunità e sai che la prossima volta potrebbero non esserci più perché un giudice li ha mandati via. Può succedere. E allora stando accanto a loro ti chiedi: che cosa conta davvero nella vita e nel nostro ministero?».

Destano scalpore le affermazioni del presidente Bolsonaro sull’Amazzonia: oggi vi sentite minacciati?

«Sicuri non lo siamo mai stati. Dal 2003 al 2016 – da quando Lula è salito in carica fino a quando è caduta Dilma Rousseff – in Amapá hanno costruito due mega-impianti idroelettrici, sono arrivati l’agrobusiness della soia ed Eike Batista con le attività di estrazione mineraria. E al governo c’era sempre il Partito dei lavoratori. Bolsonaro ha vinto le elezioni proprio per la delusione della gente. Adesso però stiamo toccando il fondo. Ha nominato ministro dell’ambiente Ricardo Sales che ha alle spalle una denuncia seria per crimini ambientali. E vuole aprire anche le aree indigene allo sfruttamento del legno, dell’oro, della bauxite».

Per queste stesse battaglie in favore dei piccoli agricoltori nel vicino Pará nel 2005 suor Dorothy Stang, missionaria americana delle suore di Nostra Signora di Namur, è stata uccisa.

«I miei colleghi la conoscevano… Ogni tanto ancora oggi persone della Pastorale della terra sono minacciate e questo ci preoccupa. Anche perché Bolsonaro sta cercando di far approvare dal Congresso una legge per la quale sparare a chi invade una proprietà è legittima difesa. Che cosa significherebbe nel contesto dell’Amazzonia, dove molte terre sono dei fazendeiros semplicemente perché un giorno hanno innalzato dei recinti e messo dei paramilitari di guardia? Se uno dice: “No, questa è terra pubblica”, oggi rischia di essere ucciso. Ci stanno già linciando moralmente perché diciamo queste cose. Ma sono terre pubbliche che di diritto dovrebbero appartenere a chi ha più bisogno. La verità è che il crimine contro gli attivisti ambientali ancora oggi paga: li togli di mezzo e in galera non ci vai».

Che cosa si aspetta dal Sinodo per l’Amazzonia?

«Il documento preparatorio ha fatto riflettere le comunità su un volto del Brasile che viene nascosto dai governanti. Il Sinodo è stato un’intuizione fantastica di Papa Francesco, in continuità con l’enciclica Laudato Si’. Lui ha il coraggio di puntare il dito contro i lupi che in Amazzonia ci sono. A Bergoglio piace molto la parabola del buon pastore, ripete che dobbiamo avere l’odore delle pecore. Ma – come mi diceva un amico biblista – questo racconto di Gesù presuppone che ci siano anche dei lupi intorno. E che il pastore usi il bastone per cacciarli. Altrimenti la parabola del buon pastore non ha alcun senso. Il Papa parla di Amazzonia non tanto per difendere le piante, ma per difendere la vita delle persone. Per difendere quelli che sono poveri ma vogliono continuare a vivere nella foresta. Il mondo e i potenti hanno altre visioni della vita, guardano solo a ciò che serve a rendere i ricchi sempre più ricchi. E allora questo Sinodo arriva per chiederci: chi sono i lupi? Chi porta via la vita oggi? E noi da che parte stiamo? Sono domande che i governanti non si porranno mai. Ma almeno come Chiesa è tempo che torniamo a chiedercelo».