COLOMBIA è l’ora della pace?

A fare sperare sono alcuni segnali inediti, a cominciare dalla tregua a tempo indeterminato annunciata dalle Farc a dicembre. Ma è necessario accelerare le trattative, per non perdere questa occasione

l 2015 deve essere “l’anno della pace” in Colombia, o le speranze di mettere fine al conflitto più lungo dell’Occidente rischiano di evaporare. Lo ha detto chiaramente il segretario di Stato Usa, John Kerry, lo scorso dicembre, nel corso della visita a Bogotá. Lo ha ribadito il presidente Juan Manuel Santos nel messaggio di inizio anno. E la tregua unilaterale, a tempo indeterminato, annunciata dalla guerriglia il 17 dicembre risponde proprio alla necessità di accelerare le trattative. Un’esigenza impellente, tanto da spingere il gruppo ribelle a un gesto inedito: finora i “cessate il fuoco” erano sempre stati proclamati per periodi brevi.

I colloqui all’Avana tra il governo di Bogotá e i guerriglieri delle Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia (Farc) vanno avanti ormai da oltre due anni. Nel frattempo, il Paese ha affrontato non poche turbolenze: dalle elezioni presidenziali alla veemente campagna anti-negoziati dell’ex presidente, Álvaro Uribe, rieletto senatore, fino al sequestro del generale Rubén Dario Alzate. Il voto dello scorso maggio si è trasformato in un plebiscito pro o contro le trattative. La riconferma tributata all’architetto dei negoziati, Santos, viene considerata come un incoraggiamento a proseguire. Nella stessa prospettiva è stato interpretato il rapido rilascio del generale Alzate, rapito nel Chocó dalle Farc il 16 novembre. Il gruppo lo ha liberato dopo due settimane. Dieci giorni dopo, il governo è tornato all’Avana.

Fra passi avanti e battute d’arresto, le trattative hanno comunque resistito. Dei sei nodi in agenda, le parti ne hanno sciolti tre: sviluppo agrario, narcotraffico, partecipazione politica dei miliziani. Restano, però, ancora da dirimere diatribe scottanti: quale verità e giustizia riceveranno le vittime di cinquant’anni di guerra, quali pene potranno essere inflitte ai guerriglieri e come questi ultimi consegneranno le armi. Oltre alla modalità di entrata in vigore dell’accordo: l’esecutivo preme per una consultazione mentre la guerriglia vorrebbe un’Assemblea costituente. Il punto è che «nulla è pattuito fin quando tutto non è pattuito», come messo in chiaro fin dall’inizio da Bogotá. Fino a quando, dunque, il trattato di pace non viene sottoscritto integralmente, le singole intese rimangono sulla carta. Per quanto questo duello sul filo del rasoio potrà andare avanti? Non molto. Forse fino alle legislative di ottobre. Il tempo stringe. E nessuno dei contendenti sembra disposto a mollare la presa. Soprattutto sul controverso punto di un’eventuale condanna per i guerriglieri responsabili di crimini contro l’umanità, come reclutamento di minori, sequestro, omicidio, stupri di massa. Delitti che, in particolare a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, hanno provocato infinito dolore ai cittadini. Il che spiega perché l’85% dei colombiani chieda il carcere per chi si è macchiato delle azioni più efferate.

Non è solo la pressione sociale a preoccupare il governo. La Colombia ha sottoscritto vari trattati internazionali che la obbligano a punire i colpevoli di delitti di lesa umanità. Le Farc, tuttavia, sono irremovibili nel rifiutare la prigione per i propri miliziani. Men che meno potrebbero accettare un’eventuale estradizione di questi ultimi negli Stati Uniti. Al contrario, esigono che ogni guerrigliero sia libero di competere alle prossime tornate elettorali. Con tanto di garanzie perché non si ripeta ildramma dell’Unione Patriottica (Up).

Negli anni Ottanta, in seguito al negoziato con il governo, un gruppo di guerriglieri decise di abbandonare le armi e partecipare alla vita democratica, attraverso appunto l’Up. Nel giro di pochi anni, i tremila principali leader vennero assassinati da misteriosi sicari. Tuttora impuniti. Buona parte dell’opinione pubblica, però, fa fatica ad accettare l’entrata in politica degli ex miliziani. Paradossalmente, i più possibilisti sono le vittime dirette della violenza degli ultimi decenni. «Non solo sarei disposta a sedere nella stessa Assemblea con gli ex guerriglieri, ma spero davvero che le Farc abbiano accesso a canali democratici di partecipazione», non si stanca di ripetere Ingrid Betancourt. L’ex politica ha trascorso 2.321 giorni nella giungla come “ostaggio più celebre della guerriglia”. «Proprio perché ho sofferto in prima persona la guerra, ho l’obbligo morale di contribuire a porvi fine», ha aggiunto. Le fa eco Costanza Turbay, la cui famiglia è stata sterminata dalle Farc. «Se possiamo perdonare noi, perché non dovrebbe farlo il resto del Paese?», ha detto durante l’incontro con i suoi carnefici la scorsa estate all’Avana.

Ad opporsi alla pace non sono solo settori di cittadini esasperati, ma potenti gruppi che devono la loro fortuna alla guerra. In primis, parte delle Forze armate che, in mezzo secolo, insieme alle perdite, hanno moltiplicato finanziamenti e gratificazioni. Per la lobby dei produttori di armi, inoltre, la fine del conflitto rappresenta una perdita economica. E la prospettiva di un aumento di benessere collettivo pari al 5% del Pil – come sostengono gli esperti – è per loro una magra consolazione. Anche all’interno delle Farc – come dimostrato dalla vicenda Alzate – le spaccature sopravvivono. I comandanti maggiormente legati a narcotraffico, sfruttamento clandestino delle miniere d’oro, estorsioni fanno più resistenze alla smobilitazione.

A questo punto, si profila un interrogativo chiave: l’eventuale firma di un accordo farà davvero incamminare la Colombia sulla via della pace? Detto in altri termini, i quadri intermedi della guerriglia accetteranno l’ordine di lasciare le armi impartito dai loro leader o sfrutteranno gli anni di addestramento per riciclarsi a tempo pieno nel crimine? È già accaduto con il disarmo delle Autodefensas Unidas de Colombia (Auc), la più feroce delle formazioni paramilitari nata negli anni Novanta in risposta alla violenza delle Farc e diventata ben presto una tremenda macchina di morte.

Nel 2003, l’esecutivo – guidato dall’allora presidente Uribe – ha avviato il controverso processo di smobilitazione: quasi 32 mila paras hanno chiesto di reintegrarsi nella società approfittando della legge di Justicia y paz (Giustizia e pace). Quest’ultima garantiva l’immunità ai “soldati semplici” e un massimo di otto anni di prigione ai leader.

Al di là del fatto che le condanne non sono arrivate a una decina, il disarmo delle Auc non ha posto fine alla violenza paramilitare. Che si è limitata a cambiare pelle. Buona parte dei paras ha dato vita alle cosiddette Bandas criminales emergentes (Bacrim). Un esercito di circa 10 mila uomini, senza connotati ideologici, attivo nel narcotraffico e nel commercio illegale d’oro.

Il rischio di reiterare un copione analogo con le Farc è alto. Vi sono almeno tre generazioni di colombiani nate e cresciute in mezzo al conflitto. In 51 anni di esistenza – sono state formate nel 1964 -, le Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia hanno “allevato” al “mestiere delle armi” un numero considerevole di ragazzi. La maggior parte dei circa 8-10 mila attuali miliziani non conosce altro all’infuori di selva, battaglie e droga. Sarà disposta a lasciare tutto per un ordine giunto dall’Avana?

Chiunque visiti la Colombia resta affascinato dalla sua cronica dualità. Da un lato vi è la Colombia-Macondo, cantata da Gabriel García Márquez: un universo rurale e selvaggio, in cui l’autorità centrale è debolissima e a comandare sono uomini armati, siano essi militari regolari, guerriglieri, semplici criminali.

Dall’altro vi è la Colombia metropolitana, moderna e ruggente, con una crescita del 4,5%. Entrambe le nazioni hanno sofferto la guerra, con un saldo di sei milioni di sfollati interni, oltre 200 mila morti e un numero imprecisato di feriti, orfani, sopravvissuti.

A Macondo il conflitto prosegue: non può essere altrimenti, nessuno è riuscito a “domare” questa geografia ribelle. Ci sono 500 mila chilometri di anfratti, montagne, valli, che le Farc possono trasformare in roccheforti inespugnabili. E la cronica fame di terra, “ostaggio” delle brame dei latifondisti, ricrea continuamente le radici dello scontro. Nella Colombia urbana, invece, la guerra si è trasformata in un fardello insopportabile. Una cicatrice insanabile. Solo la pace può curarla. E riunire, finalmente, in un cammino di prosperità un Paese spezzato. Perfino il tempo immobile di Macondo freme, mentre l’Avana negozia. E la scadenza dell’anno destinato alla firma della pace incalza. MM