«Io missionario tra le ferite dei popoli nativi del Canada»

«Io missionario tra le ferite dei popoli nativi del Canada»

Papa Francesco sta ricevendo in Vaticano le popolazioni métis e inuit vittime dell’assimilazione forzata nelle «residential school». Una tappa importante in un percorso di verità e riconciliazione, che si nutre anche di gesti quotidiani. Come quelli che racconta don Francesco Voltaggio, sacerdote romano che ha vissuto per un anno con queste popolazioni nello Yukon

 

Nel numero di marzo 2022 di Mondo e Missione raccontiamo la storia di don Francesco Voltaggio, sacerdote romano che per un anno ha vissuto tra i popoli delle First Nations dello Yukon, nel nord del Canada. Gli stessi popoli profondamente segnati dalla tragedia delle cosiddette “residential school” in nome dell’assimilazione forzata. Tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento circa 150 mila bambini nativi furono costretti a frequentare scuole governative, amministrate anche dai religiosi cristiani, vedendo così reciso il legame con le proprie famiglie e la loro cultura. Non solo: quei collegi furono a volte anche luoghi di abusi e degrado, in cui almeno 3.200 bambini trovarono la morte per malnutrizione e malattie.

Proprio per rendere giustizia alla loro memoria in questi giorni papa Francesco sta incontrando in Vaticano i rappresentanti delle comunità dei métis, degli inuit e degli altri popoli nativi colpiti da questa violenza. E presto potrebbe recarsi personalmente in Canada per un viaggio con al centro la richiesta di perdono. Ma al di là di questi gesti simbolici importanti, la riconciliazione passa dalle piccole esperienze quotidiane. Come quella – appunto – vissuta in mezzo a loro da don Francesco Voltaggio. «Alcuni nativi – racconta nell’intervista a Mondo e Missione – anche se sono battezzati, in chiesa non vanno più, a causa delle esperienze dolorose vissute nelle ‘residential school’. Si sentono scandalizzati, a volte covano rancore».

«Li ho avvicinati – continua il sacerdote romano – mostrando loro le mie stesse ferite e la mia fragilità. In questo modo sono riuscito a creare una connessione e a ottenere fiducia, cominciando un percorso insieme alla luce della fede. E ho visto accadere veri miracoli. Come quando, durante un incontro di catechesi sul modello del cammino neocatecumenale, una giovane donna ha raccontato davanti a tutti la sua storia di gravi sofferenze, dichiarando nonostante tutto la sua fiducia nella rinascita attraverso Gesù. Finché in uno dei villaggi, Carmacks, è nata una comunità di 17 persone che ha continuato il cammino di formazione cristiana anche dopo la mia partenza, lo scorso ottobre, quando sono tornato a Roma».  Per don Francesco la riconciliazione è possibile «se comincia dalla propria vita e dalla capacità di ammettere che ognuno di noi ha bisogno della misericordia di Gesù. Per questo anche la Chiesa deve sempre lasciare la sua comfort zone e restare fedele alla vocazione di andare incontro a tutti. Nello Yukon, io mi sono sentito davvero accolto: c’era chi veniva ad accendere il fuoco in chiesa il giorno prima del mio arrivo, per farmi trovare un ambiente caldo. Come ci insegna papa Francesco, non bisogna mai avere paura di chiedere perdono: poi è Cristo che viene a riconciliarci».

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