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Giappone, la prevenzione dei suicidi vittima nascosta del Covid19

C’è grande preoccupazione a Tokyo per le limitazioni imposte dal lockdown all’attività dei gruppi attivi sul fronte delle solitudini e del disagio nei rapporti sociali. E questo proprio mentre si teme che la piaga dei suicidi possa subire un’ulteriore impennata dovuta alle difficoltà economiche e all’incertezza
  Dal 15 maggio il governo giapponese ha allentato le iniziative di limitazione al movimento con l’esclusione delle aree di Tokyo e di Osaka. Anche se quest’ultima ha comunque prospettato oggi misure meno restrittive verso le attività commerciali e produttive. Pur essendo state più blande rispetto ad altri Paesi dell’Asia, in Giappone le sotrizione imposte dall’emergenza Covid19 hanno avuto comunque un forte impatto su un sistema che sulla rapidità e puntualità, come pure sull’intensità degli spostamenti, vive sul piano economico e fonda buona parte dei rapporti sociali. Per questo c’è il timore è che la crisi dovuta alla pandemia da Covid-19 abbia conseguenze per le situazioni di disagio già presenti, accentuate dalla maggiore difficoltà a riconoscerle e affrontarle per i limiti imposti dalle autorità. Ad esempio, crescono i timori riguardo ai suicidi, il cui numero già elevato potrebbe subire un’impennata dovuta alle difficoltà economiche e all’incertezza in un tempo in cui risulta più difficile l’intervento delle strutture di aiuto. Come indicato dall’agenzia d’informazione Jiji Press, numerosi gruppi e associazioni hanno dovuto ridurre o sospendere le loro attività, tra questa Inochi No Denwa (Telefono per la vita), che coordina 52 hotline di sostegno per chi manifesti tendenze suicide. Attiva da mezzo secolo, ha visto ridursi finora del 25 per cento le sue attività, particolarmente importanti perché possibili a distanza. L’80 per cento delle 55 iniziative principali attive nella prevenzione dei suicidi, sarebbe ora ferma o ridimensionata. Stesse modalità e stessi strumenti di cui si avvaleva anche il Centro per la prevenzione dei suicidi di Tokyo, che – nonostante la media di 10mila chiamate all’anno – il 13 maggio ha dovuto sospendere i propri servizi. Una situazione che la responsabile, Machiko Nakayama, ha definito «inedita in 22 anni di storia» ma dettata dal timore che si potessero verificare casi di contagio tra i collaboratori, in maggioranza di età avanzata e non preparati a utilizzare tecnologie diverse dal telefono per i contatti a distanza. I timori per la concentrazione di individui in spazi di lavoro limitati da un lato, le difficoltà imposte negli spostamenti dall’altro, rischiano di essere fatali per gruppi basati perlopiù sul volontariato, nonostante l’appello delle autorità a utilizzare il telefono e i social media come strumenti di contatto primario tra richiedenti aiuto e i possibili referenti. Alcune organizzazioni che hanno deciso di consentire ai loro operatori di agire dalle proprie abitazioni hanno imposto vincoli – come la necessità di lavorare in un ambiente isolato e di un computer dedicato esclusivamente al loro delicato compito – che non molti possono soddisfare. Il tasso di suicidi in Giappone rientra sostanzialmente nella media dei Paesi dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza economica), ovvero dei Paesi economicamente sviluppati, con 15-16 casi all’anno ogni 100mila abitanti. Tuttavia in Giappone le ragioni del disagio dipendono in misura minore rispetto ad altre nazioni da situazioni patologiche e più dalla reazione a condizioni lavorative, sociali ed economiche, come evidenziato nella crisi finanziaria del 1998 e nel ventennio successivo. Per Yasuyuki Shimizu, responsabile di Lifelink, altra ong impegnata nella prevenzione dei suicidi, «vediamo crescere ogni giorno il numero di contatti e temiamo che si ripetano situazioni del passato», per questo serve una risposta efficace in tempi rapidi. Tuttavia – molti sottolineano – servono informazioni coerenti sul contagio e sulla prevenzione, mentre altri evidenziano la necessità di risorse per fornire le organizzazioni di strumenti tecnologici e mezzi di protezione adeguati.   Nella foto: Un frame di una campagna dell’associazione Inochi No Denwa

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