AL DI LA’ DEL MEKONG
La pandemia e la Pasqua di Gesù

La pandemia e la Pasqua di Gesù

Imperfetti e fragili, eppure riconciliati da Colui che nella Sua Pasqua ha toccato il fondo della nostra natura mortale e ci ha ri-portati definitivamente in Sé, al Padre

 

Dopo una simile pandemia, se non fosse per la generosità e la prontezza testimoniata da molti, dubiteremmo anche di Dio. Troppe domande rimangono senza risposta e il solo approccio scientifico, chiedendo alla medicina o all’economia, non sarebbe sufficiente. Per questo vorrei spingere la ragione alla soglia del Mistero e interrogare la nostra fede a partire dal suo evento centrale che è la Pasqua di Gesù, la Sua morte e risurrezione. Per capire se questo virus, anche nel suo irrazionale esistere, cioè a monte del suo accadere, è solo una fatalità, un castigo, o ha a che fare con quel Mistero, di creazione e redenzione, di morte e resurrezione. Per San Paolo infatti, tutto è dato «perché possa conoscere Lui, la potenza della Sua risurrezione, la comunione alle Sue sofferenze» (Fil 3,10).

È decisivo per esempio considerare se quella sottomissione di Cristo al peccato dell’uomo che lo ha sbattuto in croce è parte di una più radicale sottomissione del Figlio di Dio alla natura dell’uomo. Ai suoi cicli e stagioni, ai suoi errori e splendori, ai suoi virus contagiosi. Ai suoi atomi e alle sue molecole, liberi di fare ciò che vogliono.

La creazione e ciò che in essa brulica, infatti, vive e respira liberamente, secondo la sua natura. La libertà è la verità della creazione. Dio non crea prigionieri. Quello che da Lui proviene rimane libero di voltargli la faccia. Libero è il vento e il terremoto. Libera è la montagna e l’uomo che la scala. È libero ogni essere di muoversi, agire, amare e uccidere, secondo la sua natura, la sua fisica e metafisica. E questo vale anche per un virus e per ogni molecola di materia. Vale per quel «sangue avvilito» – scrive Calvino – «quando nel plasma si tirano le somme di tutti i mali dimenticati d’ignoti predecessori», nel perdurante «rischio di uno sbaglio che la materia, di cui è fatta la specie umana, corre ogni volta che si riproduce» (1). È ancora Dio, che crea nella libertà e per la libertà. Libero è dunque ogni Suo figlio, di stare o di andarsene, libero è ogni atomo di agitarsi o calmarsi, secondo la sua natura. Dio si fa meno onnipotente dell’uomo – scrive Turoldo – «a causa del pauroso dono»: la libertà di ciascuno secondo la sua natura. Per questo, continua il poeta, «mi preme sapere, mio Dio: quanto del nostro male ti sia imputabile, del male che anche tu paghi (…) pure per te inevitabile» (2).

Ecco quindi affacciarsi il mistero di Gesù che patisce questa libertà e muore. Charles Péguy prende questo evento di morte come una prova del mistero dell’incarnazione. Quanto fu vera quell’incarnazione? Quanto fu vera la Sua sottomissione al peccato e dunque alla natura dell’uomo? Se fu vera sottomissione – scrive Péguy – allora Gesù «avrebbe dovuto subire la morte, la morte ordinaria, la morte comune,… la morte di ogni uomo, la morte di tutti quanti, la sorte comune, la morte comune a tutti quanti…» (3). Secondo natura. Come una qualsiasi morte causata da un qualsiasi male, in un qualsiasi momento della storia. Perché – continua – «se [Gesù] non avesse sofferto quella morte carnale, tutto sarebbe caduto… il cristianesimo sarebbe caduto…» (4). L’incarnazione sarebbe stata una menzogna, la Pasqua una farsa. Mentre invece si trattò di vera sottomissione all’infermità della carne, alla volgarità del peccato, alla miseria della natura umana con tutte le sue malattie. E da lì, da quella divina accettazione consumatasi nel Getsemani, dove il Cristo «non era più padrone di niente»(5), sarebbe cominciata la nostra resurrezione. Cristo ha assunto la natura e tutte le sue malattie per patirle prima e sanarle dopo (6). Da allora chi crede fa di ogni patire un’occasione per unirsi alle sofferenze di Cristo nella speranza di giungere alla Sua resurrezione. Per questo è decisivo averLo accanto, averlo in corpo, in questa generale sottomissione alla natura malata delle cose.

Ma rimane ancora un ultimo passo che facciamo con M. Gualtieri. In una ri-scrittura biblica della vicenda di Caino e Abele, Caino alla fine del dramma non solo si pente dell’omicidio del fratello, ma «balbettante… nudo… incerto» (7) arriva a perdonare Dio per averlo creato così male. Così violento. Il «primo sbaglio di Dio. Quello io sono» dice di sé all’inizio. Mentre alla fine è pronto a perdonare Dio «dell’imperfetto» che si porta appresso. Per la Gualtieri non solo Dio deve perdonare le Sue creature, ma anche le Sue creature, riconciliate con la propria finitudine, devono perdonare Dio per averle fatte così male. Così è per noi, imperfetti e fragili, eppure riconciliati da Colui che nella Sua Pasqua ha toccato il fondo della nostra natura mortale e ci ha ri-portati definitivamente in Sé, al Padre. «Non chiederti il perché / del dolore, del male. / È successo qualcosa in principio, di cui / non vuol parlare Dio stesso. / Mandò suo figlio a rimediare. / E basta. / Nessuno saprà mai» (8). Per questo sentiamo decisivo il Suo rimedio, l’averLo accanto in questa generale sottomissione alla natura (malata) delle cose. Così sia.

 

1. I. Calvino in La giornata di uno scrutatore, quando descrive la realtà del Cottolengo.
2. D. M. Turoldo, Canti ultimi, Milano 1991, 148.
3. C. Péguy, Getsemani, Milano 1997, 38.
4. Idem, 51.
5. G. Bernanos, Dialoghi delle carmelitane, Brescia 1987, 144.
6. Mirabile è l’adagio patristico,“quod non est assumptum, non est sanatum”.
7. Cfr. M. Gualtieri, Caino, Torino 2011.
8. R. Barsacchi, Marinaio di Dio, Firenze 1985, 73.