Le mani dell’Isis sul Kashmir

Le mani dell’Isis sul Kashmir

Ora anche New Delhi ammette le infiltrazioni del sedicente califfato nella regione contesa ai confini con il Pakistan. Un ulteriore elemento instabilità in un’area segnata da un lungo conflitto, guardato però con sospetto anche dagli indipendentisti locali

 

Temuto e anche annunciato da tempo dall’autoproclamato Stato islamico, l’infiltrazione del “califfato” in una delle aree più sensibili del pianeta sembra ora cosa fatta. A confermarlo le stesse autorità indiane che avevano finora negato il fenomeno. Ed è un ulteriore, grave elemento di instabilità che va a inserirsi in una regione a maggioranza islamica contesa da decenni tra India e Pakistan.

Un’area di grande bellezza e potenzialità di sviluppo che invece è diventata non solo centro di un confronto aspro tra i due Paesi dotati di armamenti nucleari, ma anche ricettacolo di gruppi indipendentisti che chiedono l’autodeterminazione per il Kashmir (un’area vasta complessivamente poco meno dell’Italia, annessa unilateralmente per due terzi dall’India) e anche organizzazioni estremiste e terroriste in parte sostenute del Pakistan (che a sua volta occupa il resto del Kashmir) con l’obiettivo di destabilizzare l’India e promuovere il jihad globale.

Quello del kashmir è conflitto a bassa intensità quasi permanente, costato già migliaia di vittime e che ha avuto pesanti conseguenze per la popolazione locale originaria e musulmana come per gli immigrati di fede indù che qui si sono insediati incentivati dal governo di New Delhi. Finora l’atteggiamento intransigente e repressivo dell’India ha dato una sponda efficace alle rivendicazioni islamiste, ma insieme ha contenuto il terrorismo; la mossa dello Stato islamico – però – ora ha aperto una nuova fase, anche nei rapporti tra il governo indiano e i movimenti e partiti autonomisti.

La scelta del capo della polizia nello Stato del Kashmir, S.P. Vaid, di parlare apertamente dell’infiltrazione jihadista sembra controcorrente, ma – ha spiegato lo stesso Vaid – viene dalla necessitò di contrastare la propaganda crescente del gruppo che utilizza le proprie fonti (tra cui l’agenzia Amaq) per diffondere informazioni che ne amplificano la presenza e la consistenza.

Serve quindi un’informazione alternativa e ufficiale, sia sulle azioni dell’Isis, sia sulle sue perdite. Ufficialmente, sarebbero una decina i militanti arruolati nel gruppo uccisi dalle forze di sicurezza, molti meno di quelli rivendicati come “martiri” dall’autoproclamato Stato islamico che, ad esempio, si era attribuito anche l’appartenenza di quattro militanti indipendentisti uccisi in scontri a fuoco il 22 giugno.

«Si può solo definire un incubo il fatto che questa organizzazione terroristica stia guadagnando spazio in Kashmir», ha indicato un altro funzionario della polizia, che ha pure confermato come proprio essa sia ora tra i bersagli di punta dell’intelligence indiana e delle azioni militari.

Obiettivo del “califfato” – in rotta nelle aree mediorientali ma che da tempo ha proclamato una sua estensione nel Subcontinente indiano come pure nel Sud-Est asiatico – è la destabilizzazione. È dal marzo 2017 che Rashid Bhat-Musa – leader autoproclamato dell’Isis nella regione – ha chiesto a tutti i gruppi attivi contro l’India di unirsi non più per cercare una proria indipendenza ma per difendere l’islam ovunque attraverso il jihad armato. Un appello rivolto in particolare ai giovani kashmiri, insofferenti per la mancanza di prospettive e che sta ottenendo qualche successo. Contrastato però dai gruppi storici – legali e illegali – che non vogliono l’integrazione all’India ma si oppongono a infiltrazioni di esperienze  “straniere” anche se della stessa fede, come quella dell’Isis e dei Talebani.