Manila, la quarantena vista dalla baraccopoli

Manila, la quarantena vista dalla baraccopoli

Il vescovo ausiliare di Manila Broderick Pabillo: «La maggior parte dei poveri delle città vivono come sardine nelle loro baracche. E se non hanno passeggeri da trasportare sul jeepney non hanno nemmeno nulla da mangiare. Chi sta pensando a loro oggi?»

 

Nelle Filippine i contagi da Coranavirus hanno superato i 200 casi e la metropoli di Manila resta in quarantena. Ma come si può applicare una misura del genere – pensata sugli standard delle nostre città – in una periferia del terzo mondo? È il tema al centro di questa riflessione pubblicata qualche giorno fa sulla sua pagina Facebook dal vescovo ausiliare di Manila, mons. Broderick Pabillo.

 

Come sempre, sono i poveri a soffrire di più quando un concetto proprio del primo mondo viene applicato in un contesto di terzo mondo.

Ieri era domenica. Ho pensato alle migliaia di conducenti di jeepney, tricicli e piccoli taxi a pedali che non potevano guadagnare niente perché non c’erano passeggeri che andassero a Messa nelle chiese, come previsto dal divieto statale di assembramento. Pensavo anche ai venditori ambulanti per le strade, a chi vende fiori di sampaguita, candele e oggetti di ogni tipo ai fedeli della domenica. Ho pensato ai lavoratori occasionali e a contratto che dovevano essere rimandati a casa: niente lavoro, niente paga.

I “poveri senza chiesa”, quelli che pensano alla domenica non come a un giorno dedicato al culto, ma come a un giorno in cui guadagnare un reddito più consistente fornendo servizi o vendendo cose ai fedeli della domenica, ieri non si sono guadagnati il pane. Purtroppo, molti poveri delle aree urbane nelle baraccopoli della nostra diocesi non possono permettersi il riposo domenicale.

Isang kahig, isang tuka“, un graffio, una beccata, è il modo di dire filippino che descrive la situazione dei più poveri tra i poveri. Generalmente il governo non li classifica come “disoccupati”, ma come “sottoccupati”. Non si possono neppure definire “a contratto” perché i loro mezzi di sostentamento non prevedono alcun tipo di contratto, non hanno benefici sociali, sanitari o assicurativi (SSS, PhilHealth, & Pag-ibig). Non hanno giorni liberi, né congedi di maternità o paternità, né ferie, né permessi pagati. Per loro la regola resta niente lavoro, niente soldi. E niente soldi significa niente cibo sulla tavola. Punto.

Quando le persone al governo proporranno misure e direttive che riguardano l’intera cittadinanza, chi parlerà per quei gruppi che sono praticamente considerati come inesistenti nella nostra enorme metropoli? Si rendono conto almeno che le statistiche del governo non comprendono tutta la popolazione? Sono almeno consapevoli che nelle baraccopoli delle comunità urbane dei poveri tra il 10 e il 20% delle persone non hanno documenti, ossia non sono registrate perché i loro genitori non sono riusciti a richiedere per loro un certificato di nascita? Lo sanno che nelle sale funerarie giacciono ancora decine di cadaveri di vittime di uccisioni extragiudiziali, perché nessuno può richiederli e identificarli?
Il Sabato è stato inventato non solo come obbligo religioso, ma come questione di giustizia sociale. L’idea è che alle persone, specialmente ai poveri, sia concesso il lusso di trascorrere una giornata di riposo e preghiera senza soffrire la fame.

Si consideri il comandamento com’è affermato in Deuteronomio 5: 13-15: «Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero (ossia i lavoratori immigrati), che sta entro le tue porte, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te. Ricordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato».

I Paesi del primo mondo possono facilmente dichiarare “blocchi” e “quarantene di comunità” perché presuppongono che i loro cittadini abbiano case decenti e relativamente spaziose, con camere da letto in cui potersi mettere in autoisolamento e mantenere il distanziamento sociale.

Come ha chiesto qualche giorno fa padre Danny Pilario, CM, nel suo post: “Chi spiegherà che bestia sia questo distanziamento sociale ai poveri che vivono nelle nostre baraccopoli?”. Se viene ordinato loro di restare a casa anziché vagare per le strade, quelli che propongono tali direttive si rendono almeno conto che la maggior parte dei poveri delle città vivono come sardine nelle loro baracche? La verità è che preferirebbero rimanere all’esterno proprio perché c’è un po’ più spazio là fuori, nei vicoli, nei campi coperti, nei mercati (talipapa).

Nei Paesi del primo mondo, i governi possono dichiarare giorni senza lavoro retribuiti, perché presuppongono che la maggior parte dei loro cittadini siano impiegati. I disoccupati e le persone con disabilità ricevono sussidi sociali. I pensionati percepiscono le loro pensioni. In breve, anche se smettono di lavorare, hanno la certezza che non soffriranno la fame.

Ecco il grande incubo: solo uno o due infetti in una baraccopoli troppo congestionata si moltiplicherebbero in un migliaio entro pochi giorni. Solo uno o due visitatori infetti in un carcere cittadino che ha una capacità massima di 200 persone, ma che ne detiene 2.600 (come il carcere cittadino di Caloocan e la maggior parte delle altre carceri del Paese), si moltiplicherà in centinaia e persino migliaia entro pochi giorni!

E quale centro sanitario di barangay (piccolo villaggio ndr) può eseguire test di laboratorio per determinare se le persone sotto monitoraggio (i cosiddetti PUM) o quelle sotto indagine (PUI) hanno contratto l’infezione? E, supponendo che tali procedure di analisi siano rese disponibili nei centri sanitari nelle baraccopoli e siano in grado di isolare i portatori di virus “confermati” tra le persone sotto indagine e sotto monitoraggio, dove saranno curati quelli infetti? I nostri ospedali pubblici sono già sempre pieni, con o senza COVID-19! Non è insolito vedere i poveri che attendono nei corridoi delle strutture sanitarie pubbliche. Ovviamente, i poveri non hanno altra scelta che aspettare nei corridoi perché non possono permettersi gli ospedali privati, che, per inciso, non sarebbero neanche abbastanza.
Mi chiedo: queste domande saranno mai passate per la mente delle persone al governo che stabiliscono le direttive? Solo per chiedere.

Ovviamente, poiché non possiamo lasciare tutto alle agenzie governative, dobbiamo fare la nostra parte come cittadini.
Facciamo sì che il tempo della Quaresima sia l’occasione perfetta per trovare risposte creative, nuove e pronte all’uso, motivate dalla compassione e dalla carità cristiana e volte a mitigare il pesante impatto di “blocchi” e “quarantene di comunità” sui più poveri tra i poveri intorno a noi. Chiamiamolo “Amore al tempo del COVID-19”.

(traduzione italiana dall’inglese a cura di Laura Arcara)