Missionari a casa nostra

Missionari a casa nostra

Il ricambio generazionale, le difficoltà nell’ottenere i visti, la società indiana che cambia molto rapidamente: parla il superiore regionale dei missionari del Pime in India, padre Vijay Kumar Rayarala

 

«Sono cresciuto a Khammam, nella parrocchia di padre Augusto Colombo: mi ha battezzato lui. Mio papà era uno dei suoi collaboratori». Ascolti padre Vijay Kumar Rayarala e cogli subito il passaggio che il Pime in India sta vivendo. Quarantasette anni, è lui oggi il superiore regionale di una comunità di una ventina di padri, dove i missionari italiani ormai si contano sulle dita di una mano. Colpa dell’età che avanza, ma ancora di più del mancato ricambio imposto dalle difficoltà nel rilascio di nuovi visti. E con un patrimonio di generosità e di esperienze pastorali che oggi sono per la maggior parte i missionari indiani a portare avanti. Ma con una parola d’ordine chiara per il futuro: non ripiegarsi su stessi, ma cercare con pazienza strade nuove.

Padre Vijay, quali sono i volti della presenza del Pime oggi in India?

«Continua a toccare diversi campi. Le principali attività sociali sono il centro Swarga Dwar (fondato da padre Carlo Torriani per i lebbrosi alla periferia di Mumbai nel 1983 e oggi guidato da padre Balaswamy Thota) e la Sarva Prema Society, nella diocesi di Warangal con i dispensari e gli ambulatori per i malati di lebbra, Aids e tubercolosi, fondati da padre Antonio Grugni. A questi va inoltre aggiunta la Lok Seva Sangam, che nel centro di Mumbai opera con quasi 60 tra dottori, paramedici, fisioterapisti e impiegati con lo slogan “curare la lebbra senza segregazione”; anche se la gestione ora è totalmente nelle mani dei laici, questa realtà mantiene ancora un legame con il Pime. C’è poi tutto l’impegno sul fronte dell’educazione: a Eluru sono 1.500 gli alunni che frequentano le quattro scuole e l’ostello. A cui vanno aggiunti la scuola tecnica e il laboratorio di falegnameria, tuttora seguiti dai fratelli laici Francesco Sartori ed Enrico Meregalli».

E sul fronte delle attività pastorali?

«C’è il lavoro in tre parrocchie: il santuario della Madonna di Velankanni a Irla, un quartiere di Mumbai dove il Pime quest’anno festeggia i cinquant’anni di presenza. E poi la parrocchia dedicata al beato Giovanni Mazzucconi a Khammam, nello Stato del Telangana, oggi guidata da padre Prakasa Rao, e quella di Vissannapeta, in Andhra Pradesh, dove padre George Puthenpura continua le attività iniziate da padre Mario Fumagalli. Senza dimenticare la formazione dei nuovi missionari nei seminari minori di Eluru e Trichy e gli studi filosofici a Pune».

Complici le difficoltà nel rilascio dei visti, si sta completando il passaggio del testimone con i missionari venuti dall’Italia. Come vive il Pime questo passaggio?

«Negli ultimi anni abbiamo sperimentato nuove difficoltà con i visti per i missionari stranieri. Recentemente c’è stato il caso di padre Orlando Quintabà, che era in India ormai da quarantasette anni, cui è stato chiesto di uscire dal Paese perché aveva un visto come missionario: stiamo cercando di farlo rientrare come assistente sociale. Oggi, in India, abbiamo solo sei missionari del Pime non indiani fra cui quattro italiani. Padre Torriani e fratel Meregalli hanno cittadinanza e passaporto indiani, quindi non hanno il problema del visto; padre Grugni e fratel Sartori devono invece presentarsi ogni anno alla polizia per ottenere il rinnovo. Poi c’è padre James Fannan, originario degli Stati Uniti, in India ormai da quasi dodici anni: ogni sei mesi deve uscire e rientrare; non è certo la soluzione migliore, ma ci accontentiamo… L’ultimo arrivato è padre Martins Edcarlos, missionario di origine brasiliana: sta studiando come assistente sociale all’università di Hyderabad; continuerà poi con un master a Mumbai e contiamo che pian piano si inserisca in qualche centro come assistente sociale».

Perché per il Pime è importante che restino in India anche missionari stranieri?

«Se anche questi missionari dovessero lasciare il Paese, la nostra rischierebbe di diventare una comunità solo indiana e quindi monolitica. Per questo siamo impegnati a cercare modalità nuove per ottenere i visti: come studenti, assistenti sociali oppure attraverso altre forme di lavoro. Ma è una questione da studiare caso per caso».

Quali progetti per il futuro?

«In questi 160 anni abbiamo operato principalmente nello Stato dell’Andhra Pradesh e in quello che oggi è il Telangana. La domanda che qualcuno si pone è: oggi non sarebbe meglio guardare anche ad altre diocesi? Il problema è il numero ridotto di padri a disposizione: la maggior parte di quelli di origine indiana continuano a partire per vivere ad extra la loro missione. Ma senza nuovi arrivi facciamo fatica a mantenere le strutture che abbiamo: ogni anno dobbiamo chiedere l’aiuto di quattro o cinque sacerdoti esterni al Pime. Attraverso i seminari e la formazione interculturale, peraltro, siamo già anche nel Tamil Nadu e a Pune. Inoltre il superiore generale ci ha rivolto un invito ad aprire una missione nel Nord dell’India. Forse oggi non è ancora possibile, ma non perdiamo la speranza di realizzare questo passo in un futuro non così lontano. New Humanity sta arrivando alla decisione di aprire un centro a Jaipur, nello Stato del Rajasthan».

L’India è terra di vocazioni: quale ricchezza specifica sta portando all’Istituto?

«Oggi siamo una cinquantina di missionari del Pime di origine indiana. La maggior parte lavora fuori dal nostro Paese d’origine: in Brasile, Costa d’Avorio, Camerun, Guinea Bissau, Cambogia, Thailandia, Filippine, Myanmar e Italia… In Papua Nuova Guinea e negli Stati Uniti anche i superiori regionali sono indiani. Un paio di confratelli, poi, si sono impegnati nell’animazione missionaria in Italia. Ma va detto che anche la Chiesa indiana oggi si trova ad affrontare la sfida delle vocazioni. I tempi sono cambiati anche qui: le famiglie non sono più numerose come una volta, la globalizzazione e i modelli trasmessi dai mass media influiscono sulle scelte di vita dei giovani. Quando ero animatore, diciassette anni fa, al campo vocazionale partecipavano più di cento ragazzi; oggi ne abbiamo dodici, al massimo quindici. È vero, però, che con tre case formative e le strutture adatte, il Pime in India ha ancora un centinaio di seminaristi. Questo sicuramente ci incoraggia per il futuro. Ma, al di là del numero, ci interessa la qualità della formazione di questi giovani».

Come vivono le comunità d’origine l’impegno dei missionari indiani del Pime?

«Le loro vocazioni esprimono già l’impegno missionario di queste comunità. Se teniamo presente che i cattolici qui sono meno del 3% della popolazione, le comunità cattoliche – lo vogliano oppure no – sono invitate ogni giorno a vivere lo spirito missionario ad gentes. L’India è al 100% terra di missione. È come il “granello di senapa” o il “lievito” di cui parla il Vangelo. La vitalità missionaria delle singole comunità dipende molto dai parroci: valgono anche qui le parole di Papa Francesco quando dice che il cristiano non deve fare proselitismo, ma suscitare curiosità negli altri con la testimonianza nelle scelte della propria vita».

L’immagine internazionale dell’India oscilla tra “nuova potenza emergente” e Paese che resta afflitto da grave povertà. Qual è la parte più veritiera?

«È molto evidente questo parallelismo tra grattacieli e baraccopoli. Da un lato, c’è chi viaggia su auto di nuova generazione e, dall’altro, gente che si sposta camminando per ore. Da una parte, gli alberghi a cinque stelle e, dall’altra, chi respira la polvere sotto i ponti, senza una casa. Si osserva, però, anche una certa presa di coscienza nei poveri: i genitori vogliono che i loro figli abbiano una vita migliore. Non è più come una volta, quando non capivano l’importanza dell’istruzione e portavano i figli nei campi, per prendersi cura del bestiame. Oggi fanno di tutto per farli studiare anche in scuole private. Forse col tempo sarà questa grande opera di alfabetizzazione in corso a colmare la distanza che tuttora esiste tra le due realtà».

Il Papa ha annunciato che intende venire presto in India. Che cosa potrebbe portare questa visita?

«Sono trascorsi ormai alcuni mesi da quell’annuncio, ma non si sa ancora nulla. Spero tanto che il governo indiano possa aprire la porta a Papa Francesco e che questa visita possa diventare un’occasione di dialogo autentico, mostrando una fraternità vera fra cristiani e indù. Facendo scomparire così ombre e i dubbi sui “proselitismi”, come gli indù ancora intendono tutte le conversioni».