Il Myanmar a Panglong per la pacificazione nazionale

Il Myanmar a Panglong per la pacificazione nazionale

Riuniti i rappresentanti di numerose etnie come i Karen, i Kachin, gli Shan, i Wa, i Kayah, scettiche in maggioranza ma disponibili a cessare le ostilità in cambio di un sistema federale che garantisca sicurezza e diritti. Ma non ci sono comunque i Rohingya

 

La Conferenza di Panglong per il XXI secolo, inaugurata il 31 agosto nella capitale birmana Naypyidaw e che si concluderà dopo cinque giorni di sessioni, ha tutte le caratteristiche per diventare un momento epocale nella storia tormentata dell’ex Birmania, ora Myanmar, alle ricerca un futuro democratico e pacifico dopo decenni di dittatura militare e conflitti interni, isolamento e sanzioni internazionali.
Inaugurata dalla ministra degli Esteri e Consigliere di Stato Aung San Suu Kyi alla presenza del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon, l’evento si rifà alla prima conferenza, quella che quasi 60 anni fa, nella località di Panglong, oggi parte dello Stato Shan, che diede vita alla Birmania indipendente dal potere coloniale britannico. Sotto la guida di Aung San, finito assassinato poco dopo e padre di Aung San Su Kyi, icona per un trentennio della lotta nonviolenta per la democrazia.

Proprio la leader politica, Premio Nobel per la Pace, si è impegnata a fondo per rendere possibile questa assise che nei fatti è di rifondazione dello Stato birmano che va liberandosi del controllo dei militari, al potere direttamente dal 1962 al 2010 ma che ancora mantengono poteri in grado di limitare fortemente l’azione del governo e del parlamento. Dovrebbe uscirne una via di pacificazione nazionale che passi dal cessate il fuoco e dall’integrazione a pieno diritto delle minoranze etniche in conflitto da lungo tempo e con alterne fortune contro il governo centrale. Un appuntamento a cui hanno accettato di partecipare i rappresentanti di numerose etnie come i Karen, i Kachin, gli Shan, i Wa, i Kayah, scettiche in maggioranza ma disponibili a cessare le ostilità in cambio di un sistema federale che garantisca sicurezza e diritti.

Prospettive che hanno avuto mercoledì  il pieno appoggio nell’intervento del capo dell’esercito, generale Min Aung Hlaing diventato negli ultimi tempi interlocutore privilegiato, oltre che indispensabile della 71enne “signora della democrazia”. Incontri intensi e in modo crescente resi pubblici, che negli  ultimi mesi hanno evidenziano non  soltanto il rapporto positivo tra la leadership democratica i vertici militari dopo le settimane tese seguite alle elezioni dell’8 novembre 2015.

Nei fatti, il sostegno delle minoranze e delle forze armate resta indispensabile alla “normalizzazione” del paese che è al centro della conferenza a cui partecipano, tra 1.800 delegati di ogni espressione della variegata società birmana, anche i rappresentanti delle fedi approvate, cristiani inclusi. Resta però un terzo ostacolo sulla strada del “nuovo corso” birmano ed è l’estremismo buddhista che, collegato alle frange più nazionaliste, ha cercato appoggio e giustificazione proprio tra le forze vicine ai militari.

Recenti interventi dei vertici della comunità buddhista birmana hanno delegittimato gli estremisti, in particolare quelli del movimento Mabatha guidato dal monaco Asin Wirathu, ma alla conferenza  mancata una qualunque partecipazione della minoranza Rohingya, di fede islamica e perseguitata, alla quale non viene riconosciuta la cittadinanza bimana e che è assediata dall’estremismo religioso legato a interessi economici nello Stato Rakhine, dove i Rohingya sono concentrati.

Uno strappo nella difficile tela tessuta da Aung San Suu Kyi, tuttavia l’opinione pubblica birmana resta allineata dietro la sua leader indiscussa, anche se attende risultati concreti per benessere e sviluppo.

A sei mesi dall’ingresso in carica del primo governo civile in oltre mezzo secolo, il Myanmar vede svanire l’euforia che e aveva accompagnato la vittoria senza compromessi nelle elezioni dello scorso anno. La Lega nazionale per la democrazia guidata da Aung San Suu Kyi nel ventennio che il regime militare ha impiegato a capitolare davanti all’opposizione nonviolenta e alla pressioni internazionali è sottoposta a critiche crescenti per l’incapacità di una politica coerente con le proprie radici e le promesse elettorali.
Delle tra maggiori linee di intervento per il paese (pace, sviluppo e ruolo internazionale), nessuna ha visto un progresso sostanziale, mentre le prospettive di crescita del paese e l’interesse degli investitori stranieri hanno portato un insostenibile rialzo del costo della vita.