Quell’amico ex missionario tra gli arrestati di Hong Kong

Quell’amico ex missionario tra gli arrestati di Hong Kong

Jack Clancy – arrestato insieme a decine di altri ex parlamentari e attivisti il 6 gennaio – era arrivato a Hong Kong negli anni sessanta come missionario cattolico di Maryknoll. Carrie Lam ha affermato più volte che la legge sulla sicurezza nazionale sarebbe stata applicata per fermare le frange violente delle manifestazioni. Ma le persone arrestate sono persone pacifiche e ben conosciute

 

Piove sul bagnato a Hong Kong: il 2021 inizia nel peggiore dei modi, e moltiplicando la tristezza e la disperazione. L’abbiamo scritto tante volte: la città non è più.

Il 6 gennaio sono stati arrestati 53 ex parlamentari (che si erano dimessi in protesta lo scorso novembre) e attivisti democratici, presi ad uno ad uno nelle loro case. L’accusa ha dell’incredibile: sono imputati di sovversione (punibile fino all’ergastolo) per aver organizzato l’estate scorsa primarie democratiche informali, attraverso la partecipazione telefonica, in vista delle elezioni parlamentari di settembre, poi cancellate dal governo. Siccome i democratici, a buon diritto, speravano di vincere tutti i seggi a loro disposizione e potersi opporre efficacemente alle decisioni governative (così funziona la democrazia parlamentare nel mondo…), ora sono accusati di voler sovvertire le funzioni del governo.

Tra loro, ed è la prima volta, un cittadino straniero, l’anziano avvocato – per i diritti umani – statunitense John (Jack) Clancy, residente a Hong Kong da molti decenni, e presidente della Commissione Asiatica per i Diritti Umani. Conosciamo bene Clancy, il suo arresto ci tocca da vicino e suscita in molti un forte senso di inquietudine. Ci dispiace enormemente per l’ingiustizia che subisce. Arrivato a Hong Kong negli anni sessanta come missionario cattolico dell’istituto di Maryknoll, Jack Clancy si impegnò nelle manifestazioni contro la guerra in Vietnam da parte degli Stati Uniti. Fu cappellano degli studenti universitari cattolici e poi, lasciato il ministero ordinato, ha continuato la sua missione, sempre con dedizione pacifica e generosa, per la difesa dei diritti umani, della giustizia e della democrazia. Nel 1991 ha pubblicato anche in libro di preghiere per lavoratori: God, Hear Our Prayer (Dio, ascolta la nostra preghiera). L’arresto dell’ex missionario sempre solidale con l’impegno dei cattolici per la giustizia e la pace, è un sinistro segnale dell’inesorabile direzione degli eventi, anche per quanto riguarda l’impegno della chiesa nelle questioni sociali e dei missionari stranieri.

Il 6 gennaio è avvenuta l’epurazione di un’intera generazione di impegno democratico che aveva portato, in diverse occasione nel 2019, a manifestazioni popolari che hanno coinvolto circa 2 milioni di persone, ovvero un quarto della popolazione. Il capo esecutivo aveva più volte, sapendo di mentire, affermato che la legge sulla sicurezza nazionale sarebbe stata applicata per fermare le frange violente delle manifestazioni. Ma le persone arrestate sono persone pacifiche e ben conosciute, uomini e donne democratici impegnati nelle istituzioni, parlamentari eletti dal popolo.

Non si sa ancora chi ha generato le violenze del 2019 (ovvero non si vuole saperlo); vengono invece criminalizzate proprio le persone più moderate, che hanno creduto di riformare e migliorare le cose dall’interno del principio “un Paese – due sistemi”. Come il terrorismo in Italia degli anni settanta, che uccideva le persone più miti, moderate e riformiste. Secondo il potere cinese siamo alleati da intruppare o nemici da eliminare. Non c’è spazio per altro.

Il sistema giudiziario indipendente dalla politica (uno dei punti di forza del sistema di Hong Kong) è sempre più sotto scacco della legge sulla sicurezza nazionale, come dimostra il recente caso di Jimmy Lai. Il giudice che gli aveva concesso la libertà su cauzione è stato aspramente attaccato dalla stampa di regime, e il capo esecutivo non solo non ha difeso le prerogative della magistratura, ma ha preso le parti di coloro che hanno prodotto attacchi intimidatori ai magistrati. Il sistema giudiziario indipendente è l’ultima linea di difesa per un minimo di giustizia a Hong Kong. Presto non ci sarà più.

A Hong Kong non solo è stata uccisa la libertà e la speranza: è in atto un vero e proprio sovvertimento del senso ordinario di parole e concetti. C’è un’abissale distanza e discrepanza tra le iperboliche accuse rivolte agli arrestati e i fatti contestati. La relazione tra la realtà e il linguaggio per esprimerla è pervertita. Un esercizio normale di democrazia come le primarie e l’ovvia dichiarazione del desiderio di vincere le elezioni sono considerati sovvertimento dei poteri dello Stato.

Se questa spregiudicata operazione linguistica funziona, come hanno ben osservato Ilaria Maria Sala e Louisa Lim, succederà come in Cina trent’anni fa, dopo la strage di piazza Tiananmen: molta gente di Hong Kong modificherà la percezione del senso degli eventi, anche quelli più recenti e di cui sono stati partecipi. L’istinto di sopravvivenza creerà una nuova memoria collettiva, appiattita sulle narrazioni di regime.