Yaba e Phensedyl, le droghe del Bangladesh

Yaba e Phensedyl, le droghe del Bangladesh

Le statistiche ufficiali – probabilmente sottostimate – indicano in 6,6 milioni i tossicodipendenti nel Paese. Che ha ben poche politiche pubbliche per prevenzione e recupero, ma si affida alla repressione violenta «alla Duterte». L’impegno di Caritas Bangladesh per un approccio diverso

 

La tossicodipendenza dilaga in Bangladesh e il contenimento – difficile con altri mezzi per la scarsità di risorse e lo stigma posto sui consumatori di droghe in questo paese musulmano – è ancora affidato soprattutto alla repressione. Le statistiche ufficiali (Dipartimento per il controllo dei narcotici) indicano in 6,6 milioni i tossicodipendenti sui complessivi 170 milioni di abitanti, con fonti indipendenti che segnalano numeri superiori. Un dato preoccupante, ancor più per un fenomeno in crescita.

Nel 2017, Arup Ratan Chaudhury, a capo di Manas – un’organizzazione impegnata in programmi di sensibilizzazione nelle scuole e università della capitale Dacca – confutava le statistiche ufficiali di allora (5 milioni di utilizzatori abituali di stupefacenti) parlando di “10-15 milioni”; ma ancor più segnalava che un rapporto dell’anno precedente aveva riferito una crescita di 80.490 volte dei sequestri di metanfetamine rispetto al 2008. Queste droghe sintetiche, come pure il Phensedyl (sciroppo per la tosse), cannabis e eroina sono le più usate. «Ogni giorno milioni di pillole di yaba (metanfetamina) entrano nel nostro Paese attraverso la frontiera con il Myanmar, mentre il Phensedyl arriva dall’India», sottolineava Chaudhury aggiungendo che «queste droghe stanno colpendo le basi della società sotto il naso delle autorità e delle agenzie incaricate di far applicare la legge».

Per far fronte a questa situazione, il governo ha scelto una “ricetta” molto simile a quella utilizzata negli ultimi due anni nelle Filippine dal presidente Rodrigo Duterte, ovvero una repressione dura, con migliaia di arresti indiscriminati (che hanno contribuito a rendere i tossicodipendenti la stragrande maggioranza dei detenuti nelle carceri più affollate, come quella di Chittagong) e centinaia di spacciatori e consumatori uccisi in operazioni di polizia ed esecuzioni extragiudiziarie. Una “soluzione” che, insieme a leggi più severe che includono la pena di morte per traffico di droga, avrebbe contribuito a ridurre del 30 per cento l’utilizzo di stupefacenti, ma a caro prezzo e soprattutto lasciando inalterate leadership del traffico di stupefacenti, responsabilità e connivenze.

D’altra parte, pochi dei già magri investimenti sociali del bilancio del Paese sono destinati a prevenzione e recupero. Basti pensare che, a fronte dell’estensione del fenomeno, tra il 2015 e il 2019 i centri pubblici hanno trattato 90,133 individui e altri 53.720 sono stati ospiti nei 324 centri privati. Scarse anche le risorse per terapie e specialisti. Una situazione già inadeguata, aggravata dalla distribuzione ineguale dei centri di cura e riabilitazione, collocati in soli 23 dei 64 distretti in cui è diviso amministrativamente il Bangladesh, vasto quanto la metà dell’Italia.

Questa situazione ha sollecitato anche la Chiesa locale a intervenire. Lo ha fatto già da un trentennio con varie iniziative ma, più direttamente, attraverso il suo braccio socio-assistenziale, Caritas Bangladesh che nel 1994 ha preso in carico Baraca, Bangladesh Rehabilitation Assistance Center for Addicts, fondato sei anni prima dallo statunitense , Ronald Drahozal, religioso dei Fratelli della Santa Croce. L’istituzione si trova nei sobborghi di Dacca, a Savar, una delle aree urbane e produttive centrali nello sviluppo nazionale ma divenuta un simbolo anche delle problematiche dell’inurbamento, dell’inquinamento, della piaghe legate al lavoro, ai servizi socio-assistenziali e alla convivenza. A Drahozal, pioniere nel trattamento e recupero dei consumatori di sostanze stupefacenti, si deve anche Ashokti Punorbashon Nibash (Apon), un centro residenziale per il recupero dalla tossicodipendenza, oggi a Manikganj, pure nell’area della “Grande Dacca”.

 

Foto: Flickr / Labib Ittihadul